DAL blog  di cambiailmondo LE DUE PIAZZE DI REPUBBLICA NEL RADIOSO MARZO D’EUROPA

Di cambiailmondo il 08/03/2025 Michele Serra prova a convocare due piazze in una: la prima in favore dell’Europa realizzata, pronta a sacrificare il welfare in nome del militarismo; l’altra in favore dell’Europa idealizzata dalla retorica del centro-sinistra. Questa contraddizione potrebbe presto pervenire a un punto di rottura, aprendo la strada a una ulteriore e più decisa svolta reazionaria.

Manifestare in favore dell’UE realizzata fingendo che somigli alla sua versione idealizzata rischia di legittimare la svolta a destra anche presso l’opinione pubblica democratica.

di Marco Montelisciani - La manifestazione del prossimo 15 marzo è divenuta, al di là delle intenzioni degli organizzatori e di chi in buona fede vi ha aderito, terreno di confronto tra due polarità difficilmente conciliabili che convivono nell’ambito del blocco di potere e consenso egemone in Europa, rappresentato plasticamente dalla Große Koalitiontra popolari, socialdemocratici e liberali che regge da decenni sia le istituzioni comunitarie sia i “sistemi dell’alternanza” all’interno dei Paesi membri e a cui, a vario titolo, fa riferimento il mainstream del dibattito pubblico. Tale blocco è oggi scosso dal cambio di strategia avvenuto alla Casa Bianca, che determina il venir meno di certezze che sembravano acquisite. La manifestazione nata dall’appello “Una piazza per l’Europa”, firmato da Michele Serra sulla principale testata del progressismo liberale italiano, figlia delle turbolenze di questa fase, non fa che riprodurne le contraddizioni. Lo stesso vale per il promotore della mobilitazione, che nei giorni scorsi ha sentito l’esigenza di correggere il tiro rispetto all’impostazione che aveva originariamente inteso dare alla sua iniziativa. Salta immediatamente all’occhio, infatti, leggendo l’appello del 27 febbraio, che non vi ricorra mai la parola “pace”. Tale assenza sembra intimamente coerente con l’impostazione dell’appello e con quella di chi, da subito, vi ha aderito con più entusiasmo. L’intima coerenza non è legata tanto alla circostanza – tutto sommato contingente – che Serra e il suo giornale siano apertamente schierati perché l’Europa continui a fare la guerra contro la Russia fino alla vittoria finale sul campo di battaglia. Il punto è che tutto l’impianto dell’appello scaturisce dalla necessità di esorcizzare il timore di una possibile fine dell’Occidente come “concetto politico-strategico”, che sarebbe ovviamente una conseguenza della rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca e della sua spregiudicata politica interna ed estera. Ma cosa può significare, nell’economia del ragionamento di Serra, “concetto politico-strategico”? Sembra di poter rispondere che il fatto che l’Occidente cessi di essere un concetto politico-strategico (dal greco strategòs: comandante militare) significhi che esso non è più spendibile come concetto oppositivo-polemico (dal greco pòlemos: guerra). Ancora più semplice: la possibilità che l’Occidente cessi di esistere come concetto politico-strategico rischia di precipitarci in una condizione in cui non siamo più certi che ci siano un “noi” – l’Occidente – e un “loro” – tutti gli altri –, che “noi” siamo ontologicamente superiori a “loro” e che solo per questo motivo abbiamo il diritto di fare la guerra a “loro” per affermare la nostra way of life, cioè per de-finire (ovvero de-limitare: operazione che consiste nel tracciare un confine che separa e oppone “noi” e “loro”) la nostra identità (dal latino idem esse: essere la stessa cosa), così da essere di nuovo certi che “noi” siamo uguali tra “noi” e – soprattutto – diversi da “loro”. Questa certezza è infatti il fondamento della propria esistenza politico-strategica, cioè politico-polemica. Si tratta di un modo di ragionare tipico del nazionalismo otto-novecentesco che ha condotto a due guerre mondiali. La conseguenza di questo modo di ragionare non può che essere quella tipica di ogni nazionalismo: la propria esistenza politico-polemica va provata dimostrando a sé stessi e agli altri di essere disposti a fare la guerra. E, nel momento in cui l’esistenza politico-polemica dell’Occidente cessa di esistere, va provata l’esistenza politico-polemica dell’Europa, la quale, Serra lo dà per scontato, coincide con l’Unione Europea. La guerra, in questo contesto, non è più – se lo è mai stata – in nome della libertà dell’Ucraina, che significativamente nell’appello non è neppure nominata. In gioco infatti c’è molto più di qualche chilometro di confine: in gioco c’è il concetto politico-polemico di Europa, cioè la possibilità di continuare a dire “noi” e “loro”, cioè “noi” contro “loro”. Per questo serve individuare un vessillo, un riferimento per quell’idem esse di cui ha bisogno ogni nazionalismo. Il problema è che il nazionalismo di cui sembra farsi portavoce Serra non può avere come riferimento i miti della nazione in senso classico, come unità organica di sangue e suolo: gli Stati-nazione europei, infatti, sono ormai solo un “vaso di coccio” tra i vasi di ferro degli Stati-impero. Ma, d’altra parte, nemmeno è più spendibile, dopo il “tradimento” di Trump, l’idea di Occidente. Infatti, dopo che per secoli la nozione di Occidente era stata pressoché un sinonimo di Europa, la fine della seconda guerra mondiale ha lasciato in eredità una nozione di Occidente inestricabile dal sistema dell’egemonia – benevola, si intende – degli Stati Uniti sull’Europa per interposta NATO e, poi, UE. Giova ricordare, a tal proposito, che fu Giorgia Meloni a parlare di “nazionalismo occidentale” ricevendo da Elon Musk il premio dell’Atlantic Council a New York, lo scorso settembre, prima che il cambio di amministrazione a Washington minasse le certezze dei nazionalisti di vecchio e nuovo conio. Eppure, se non sono disponibili la nazione e l’Occidente, di un vessillo da brandire mentre si dà prova dell’esistenza politico-strategica dell’Europa ci sarà comunque bisogno. Il vessillo scelto da Michele Serra è “ciò che banalmente chiamiamo democrazia”. Ma quale nozione di democrazia sta alla base di un tale nazionalismo guerresco? “Separazione dei poteri, diritti e doveri uguali per tutti, libertà religiosa e laicità dello Stato, pari dignità e pari serenità per chi è al governo e chi si oppone”. Con tutta evidenza, qui l’etichetta “democrazia” nasconde una sostanza vetero-liberale. Con vetero-liberale ci si riferisce alla posizione politica dominante in quello che Massimo Severo Giannini chiamava lo “Stato monoclasse”, cioè lo Stato che aveva come unica missione la tutela dell’ordine sociale borghese e che, perciò, si limitava a dotare quell’ordine di una forma giuridica che garantisse la certezza dei contratti, la sicurezza dei commerci e la sacralità della proprietà, escludendo dalla propria base di rappresentatività, e dunque dal potere, le masse non borghesi. È lo Stato dalla cui crisi nacquero i fascismi. Una nozione di democrazia che dunque recide il legame storico e ideale con la tradizione democratica del Novecento e che è un portato di lungo periodo della sconfitta del movimento operaio alla fine del secolo breve. Il movimento operaio fu infatti il fondatore e il garante di ultima istanza della tradizione – questa, sì, tipicamente europea – che vedeva nella democrazia non l’involucro giuridico dei privilegi di una sola classe, ma lo strumento della liberazione delle masse popolari attraverso l’effettiva redistribuzione del potere, presupposto di ogni altra redistribuzione. Una tradizione che infatti ha prodotto quel welfare state, che oggi le élites economiche e politiche dell’Europa programmano di sacrificare in nome del riarmo, e che infatti non compare tra i motivi per cui l’appello di Repubblica chiama le masse a scendere in piazza. Ciò che Serra, nell’articolo del 27 febbraio, chiama “banalmente” democrazia, dunque, è in realtà la sanzione di ciò che è avvenuto in Europa dopo il biennio ’89-’91: la fine dell’esperienza della democrazia di massa e il ritorno a una forma politica la cui base di rappresentatività effettiva è ristretta alle sole élites economiche. Una nozione formale di democrazia che maschera la sostanza di quella che Emmanuel Todd chiama oligarchia liberale. Nessuna sorpresa se, al manifestarsi della crisi di questa forma politica, torna a farsi vivo anche il fascismo. In questo contesto, la piazza del 15 marzo si è atteggiata sin dall’inizio come il tentativo di fornire una parvenza di consenso di massa al nuovo nazionalismo delle oligarchie liberali in crisi di egemonia. Il manifesto di convocazione della manifestazione, infatti, non è affatto una piattaforma neutra sulla quale possano comodamente convivere istanze diverse e dunque trovare spazio anche posizioni critiche e pacifiste: è invece il manifesto di un nazionalismo di matrice liberale che ricorre alla leva emotiva nel tentativo di suscitare una mobilitazione di segno interventista, che corrisponde all’esigenza dei vertici delle istituzioni europee di trovare il sostegno delle opinioni pubbliche ai loro piani di riarmo. La proposta di Ursula von Der Leyen di investire 800 miliardi di euro in armamenti e di scorporare le spese militari dal computo dei deficit dei bilanci pubblici nazionali ai fini dell’applicazione delle regole fiscali dell’Unione, però, non può che mettere a disagio i sindacati e quella parte del mondo liberal-progressista che, stando alle intenzioni dichiarate, pur senza mettere in discussione l’adesione alle compatibilità di sistema, cerca una via d’uscita dalla stagione della subalternità al neoliberismo e della “terza via”. Il piano di riarmo degli Stati europei, infatti, da un lato stride con la retorica dell’Europa come spazio di pace, che rappresenta un pilastro dell’europeismo acritico che ha caratterizzato la sinistra moderata negli ultimi decenni; dall’altro promette di avere un impatto devastante su ciò che resta, dopo due decenni di austerity e privatizzazioni, dei servizi pubblici universalistici e degli strumenti di protezione sociale. Di questa difficoltà è espressione il secondo articolo di Michele Serra, pubblicato il 6 marzo sempre su Repubblica, che tenta di controbilanciare l’impostazione del suo appello originario e che ha un effetto rassicurante per il mondo liberal-progressista e il sindacalismo democratico in merito al fatto che partecipare alla manifestazione del 15 marzo non equivalga ad aderire alla strategia militarista e anti-popolare che l’Unione Europea si appresta a intraprendere. Non sarà però un’operazione di equilibrismo retorico a sanare le contraddizioni che attraversano le classi dirigenti europee e che per conseguenza attraverseranno anche la manifestazione convocata da Repubblica, perché esse hanno radici ben più profonde. Con i suoi due articoli, in realtà, Michele Serra prova a convocare due piazze in una: la prima in favore dell’Europa realizzata, pronta a sacrificare il welfare in nome del militarismo; la seconda in favore dell’Europa idealizzata dalla retorica progressista del centro-sinistra. Questa contraddizione potrebbe presto pervenire a un punto di rottura e aprire la strada alla formazione di un nuovo blocco egemone e a una ulteriore e più decisa svolta in senso reazionario degli assetti politici del continente. Scendere in piazza in favore dell’Unione Europea realizzata, fingendo che somigli o abbia mai somigliato alla sua versione idealizzata, rischia di offrire alla svolta a destra una legittimazione anche presso l’opinione pubblica democratica. Sarebbe invece necessario, oggi più che mai, un movimento reale per un’altra Europa, che riannodi i fili della sua storia democratica e ripudi il suo presente oligarchico, che conquisti la sua indipendenza e autonomia non in nome di un nazionalismo fanatico e suprematista, ma in nome della pace e della giustizia tra i popoli, di un multipolarismo cooperativo fondato sul reciproco riconoscimento, capace di affrontare le grandi sfide comuni poste dalla crisi ecologica e dalle nuove tecnologie, di dare un governo al mercato mondiale frenandone gli impulsi distruttivi e correggendone gli squilibri, di favorire l’emancipazione e la modernizzazione di tutti i popoli del mondo lungo il percorso che ciascuno ritiene adeguato alle proprie condizioni. In definitiva, un’Europa che dia prova della propria esistenza politica non mostrandosi disposta a fare la guerra, ma dimostrandosi in grado di costruire le condizioni della pace. FONTE: https://centroriformastato.it/le-due-piazze-di-repubblica-nel-radioso-marzo-deuropa/