Scritto da Carlotta Bonura (foto accanto) - 26 gennaio 2020 Condividi Tweet La seconda tappa del nostro viaggio in Myanmar è la città di Bagan. Mi ricorda un po’ la storia di Petra, in Giordania.
Fondata nel 1057, Bagan entra a far parte nel 1287 dell’Impero dei Mongoli. Negli anni Novanta la popolazione viene spostata interamente da quella che oggi è Old Bagan alla New Bagan, la parte fuori dal recinto archeologico che ospita hotel e strutture turistiche. Tra l’XI e il XII Secolo vennero fatti costruire circa tredicimila templi, in questa valle che si estende per circa 40 chilometri quadrati. Di questi ne rimangono oggi circa duemilacinquecento, più o meno intatti dopo il terremoto del 1975 e le successive ricostruzioni, prevalentemente poco rispettose dell’aspetto originale dei templi (del restauro si incaricò la giunta militare dell’epoca). Tutto ciò ha ritardato l’ingresso del sito di Bagan nel Patrimonio dell’UNESCO (luglio 2019). Muovendoci su scooter elettrici per le strade sterrate del sito archeologico, vediamo centinaia di templi e pagode susseguirsi e disegnare il paesaggio di Old Bagan. Davanti ad ogni tempio siedono artisti e venditori di dipinti a sabbia. Questi vengono realizzati stendendo prima uno strato di colla su tele di cotone, successivamente coperte di sabbia. Ciò crea una base per i dipinti, eseguiti con pennini e pennelli sottilissimi dagli artisti nella penombra dei templi. Lo scintillio dell’oro di Bu Paya, una delle pagode più antiche del sito, risalente al IX Secolo, si nasconde dietro la maestosa entrata e rivela tutto il suo splendore all’ora del tramonto. L’attuale è una ricostruzione successiva al terremoto del 1975. Tutti i bambini qui sorridono, non sanno come dire ciao, ma alla fine, incoraggiati dal papà o dalla mamma, fanno un timido cenno con la manina. Gatti e cani vivono nell’ombra di questi luoghi, per cercare ristoro o forse qualche carezza. Qui l’animale vive all’aria aperta, libero. Il Paese presenta ancora un alto tasso di mortalità a causa della rabbia. Nonostante ciò ogni animale viene rispettato come essere vivente e non esistono forme di controllo della riproduzione dei cani randagi. Giunte ormai a metà del nostro viaggio, siamo molto curiose di vedere il Lago Inle, di cui abbiamo letto tanto, e conoscerne i villaggi e i popoli. Da europee, abituate al turismo di massa, immaginiamo luoghi molto più turistici. I turisti qui sono prevalentemente coreani, cinesi e americani. Incontriamo anche gruppetti di francesi e inglesi e qualche neozelandese. La cultura birmana sembra affascinata dallo straniero, dalle persone di aspetto diverso dal loro (esclusivamente di pelle chiara). Purtroppo il turista occidentale in Birmania vive in un mondo fantastico, vede un Paese aperto a diverse culture e tradizioni, dove la xenofobia non esiste, ma solo sorrisi e gentilezza. La realtà della vita quotidiana, come svelatomi in seguito da Giulia, è molto diversa e percepibile solo da chi vive la città quotidianamente. Arriviamo al paese di Nyaungshwe, vicino al Lago Inle, alle 4 del mattino. Ho l’impressione che qui il turista sia visto ancora come un ospite vero e proprio. I birmani non girano attorno alle cose o ai prezzi, la sincerità e la semplicità sono le caratteristiche più rappresentative di questo popolo. Questo vale anche per le strutture turistiche, che sembrano non guardare al guadagno. L’Hotel ci presenta una guida che ci porterà in giro sulla sua barca per i villaggi del Lago Inle. Partiamo verso le 11,30 e lungo il tragitto vediamo pescatori in equilibrio su un piede, con le gigantesche reti di bambù e cotone, altre barche di turisti, guidate da uomini o donne, venditori ambulanti che vanno di casa in casa, venditrici di gioielli che si accostano alla barca tentando di vendere qualche manufatto. La nostra guida rallenta in alcuni punti che ritiene di particolare interesse per noi, in questa che mi sembra una corsa all’impazzata verso non so quale meta. Decido di farmi sorprendere, senza fare troppe domande (la guida non parla quasi una parola di inglese in ogni caso) e cerco di assorbire quest’aria, questi rumori, questo silenzio. Entriamo in una via d’acqua, il canale d’accesso al primo villaggio. Vediamo palafitte, più o meno ricche, persone che dormono al di sotto (probabilmente il punto più fresco della casa). I barcaioli si rincorrono lungo i canali. Ci fermiamo per visitare la pagoda sul lago. Cerco il silenzio in questo luogo, nonostante sia affollatissimo di turisti e pellegrini. Visitiamo altri laboratori artigianali, dove viene lavorato l’argento, vengono filate la seta e la fibra estratta dal fiore di loto, vengono prodotti sigari e sigarette, costruite barche in legno Tek e souvenir di vario tipo. I sigari birmani vengono prodotti con tabacco naturale o aromatizzato, ai sapori di anice, miele o banana. Avvolti in una nuvola di fumo profumato parliamo con il ragazzo che gestisce il negozio, che ha lavorato qui per 13 anni. Calcolo che deve avere avuto 15 anni quando ha iniziato a lavorare, perché ha la nostra età adesso. Le sigarette vengono avvolte nelle foglie dell’albero Inle, tipico di questo luogo e hanno dei filtri di foglie di mais arrotolate, mentre i sigari vengono avvolti in foglie di tabacco. I bambini sorridono dalle loro case e dai laboratori dei genitori e ogni tanto urlano “Mingalaba”, il saluto locale. Al laboratorio di ombrellini, molto importanti per i birmani per proteggersi dal sole e non abbronzarsi, troviamo anche le tipiche marionette in legno Tek, colorate e vestite in colori sgargianti. Ricordano chiaramente i pupi siciliani. La visita al laboratorio di tessitura mi interessa particolarmente. La fibra di loto viene estratta dallo stelo del fiore. Servono 4000 fiori di loto e una settimana di lavoro per realizzare un foulard. La fibra è un filamento sottilissimo ma molto resistente al centro del grosso stelo. Tante fibre arrotolate insieme su una tavola di legno formano il filo, che poi viene sbiancato, colorato e filato. Le donne e gli uomini del laboratorio disegnano le fantasie delle stoffe che poi verranno utilizzate per realizzare longyi (gonne tradizionali birmane), sciarpe, camicie e cravatte, o vendute al metro. La seta che viene lavorata qui proviene dalla città di Mandalay. La lavorazione dell’argento inizia da una pesante pietra nera, estratta nello stato Shan del Paese. Insieme alla giada, troviamo altre pietre preziose, vendute prevalentemente ai turisti, come zaffiri e ambra. Camminiamo sulle stradine di pietra del villaggio e incontriamo ragazze che passeggiano sotto un ombrellino, vediamo bambini che giocano a pallavolo nei cortili delle scuole e pian piano questo mondo sull’acqua si apre davanti ai nostri occhi, verdissimo e ricco di piante dai colori sgargianti e gatti annoiati. Viaggiare in barca è molto rilassante e il nostro accompagnatore si ferma un’ultima volta per farci visitare il monastero sull’acqua. Vediamo un monaco intento a fare catechismo con un gruppo di giovani e un altro all’aria aperta indaffarato sul suo smart phone. I monaci buddisti più giovani si stanno adeguando ai tempi. Lo interpreto come un’evoluzione della comunicazione e dell’informazione, esattamente come è avvenuto nel resto del mondo. Incontro un barcaiolo che suona la chitarra e insiste perché la suoni anche io. Appunto il suo nome per ricodarlo: Al Wai. Seduto sotto un portico davanti al laboratorio di marionette suona una chitarra acustica, scambiando ogni tanto qualche parola con i colleghi. Cerco contatti umani, in questo luogo in cui molte cose mi sembrano ordinate secondo la logica del turista. Le palafitte più ricche, così come anche le pagode, ricordano i palazzi di Venezia lungo il Canal Grande. Corriamo in barca, sentiamo solo il rumore del motore e del vento. Tornando verso il paese al tramonto vediamo le piantagioni fluttuanti di pomodori. Dopo un veloce aperitivo al Night Market ci dirigiamo al Linn Hta Il Myanmar traditional kitchen, dove ordiniamo curry di melanzane e di verdure, accompagnati da riso, verdure, salsa di soya, fagioli di soya fritti al peperoncino e arachidi fritti e speziati. Dopo queste giornate sul lago ci aspetta ancora un viaggio notturno in autobus per Yangon, per poi raggiungere l’Oceano Indiano… Carlotta Bonura Fine seconda parte