Un episodio importante della storia siciliana di cui, forse volutamente, ben poco si parla e che sfociò in una crisi diplomatica di vaste proporzioni con la potenza inglese, si colloca fra il 1838 al 1840 e riguarda la commercializzazione dello zolfo, risorsa strategica di cui la Sicilia deteneva un indiscusso monopolio.
Tutto parte dall’abolizione della feudalità in forza della Costituzione del 1812 e della trasformazione degli antichi feudi in allodi, cioè proprietà privata. La privatizzazione ebbe delle ricadute significative anche per quanto riguarda l’architettura sociale, permise, fra l’altro, ai nuovi ricchi di potere soddisfare la loro fame di terra e consentì agli indebitati aristocratici di potere vendere quelle che erano diventate proprietà per onorare le loro obbligazioni. Il codice civile borbonico, modellato su quello francese ed approvato nel 1819, annetteva alla proprietà esclusiva del suolo anche la “parte sottoposta”, cioè il sottosuolo. Disposizione completata dalla legge mineraria che prevedeva la libera disponibilità con il solo vincolo del pagamento di una tassa. Questa favorevole situazione giuridica fu immediatamente sfruttata sia dai vecchi latifondisti che dai nuovi proprietari per dare corso allo sfruttamento selvaggio del sottosuolo per procurarsi la preziosa materia prima la cui domanda era cresciuta in modo esponenziale. Erano soprattutto gli inglesi, il cui vertiginoso sviluppo industriale richiedeva sempre maggiori quantità di zolfo per alimentare le fabbriche di acido solforico, a mantenere alta la domanda. Fu soprattutto a partire dal 1830 che l’estrazione assunse ritmi crescenti. Se, infatti nel 1830 la quantità estratta ammontava a 15.000 tonnellate, nel 1837, anno che precede e determina i fatti di cui parliamo, l’estrazione ammontava a ben 65.000 tonnellate. Questo non poteva che avere riflessi negativi sul sistema dei prezzi. Proprio in quell’anno, a causa della sovrapproduzione, fece crollare i prezzi. Era l’avidità dei proprietari delle miniere che determinava quel disastro e che favoriva gli acquirenti trasformando, come scriveva il Mortillaro, quella che doveva essere ricchezza in “nuova sorgente di miseria”. Di tutto questo disastro si rese conto Ferdinando, da otto anni re delle Due Sicilie, che nonostante le pressioni dei poco responsabili proprietari decise di mettere riparo alla situazione. La soluzione fu trovata grazie alla idea di un mercante francese, Aimé Taix il quale aveva già proposto al sovrano un monopolio ventennale di vendita dello zolfo garantendo la stabilità del prezzo. L’idea parve l’asso nella manica e da parte delle autorità siciliane si diede via libera al Taix che associò nell’impresa il ricco imprenditore Arsenio Aycard. Così, nel giugno del 1838, fu fondata a Parigi la “Compagnie de soufres de Sicile” al cui capitale contribuì, con fondi personali, il sovrano Duesicile per un terzo. L’accordo raggiunto doveva contribuire a limitare l’offerta e ad alzare il prezzo con riflessi positivi per l’economia siciliana di cui i proventi che venivano dallo zolfo erano divenuti la principale risorsa dell’isola. L’accordo prevedeva anche la costruzione di un impianto di acido solforico e soda in Sicilia, precisamente nella frazione Caricatore di Agrigento e la fornitura gratuita per usi militari del “fiore di zolfo” proveniente dalle lavorazioni nella stessa fabbrica. Un accordo di tutto rispetto, i cui riflessi positivi si sarebbero visti negli anni seguenti se non si fossero nel frattempo levate le proteste degli industriali inglesi che vedevano ridurrei sensibilmente i loro margini di utili. E qui, entra in gioco il governo inglese che, sollecitato dagli stessi industriali, dichiarò nulla la convenzione in quanto avrebbe violato la clausola di nazione più favorita prevista dal trattato commerciale del 1816. La palla passava ora al sovrano che non ebbe dubbi nel confermare la propria scelta respingendo l’intimato inglese in nome del diritto di sovranità del regno delle Due Sicilie. Era un atto di orgogliosa rivendica di un diritto che, al di là dei trattati, non poteva essere messo in dubbio. La richiesta inglese, peraltro sollecitata dai proprietari di miniere che vedevano nel breve periodo minacciate le proprie entrate, fu tradotta dal primo ministro britannico lord Palmestorn in un ultimatum, un vero atto di guerra confermato dall’intervento della flotta inglese che impose il blocco navale alla Sicilia. La situazione si fece particolarmente grave a tal punto che, considerata la sproporzione delle forze, il governo napoletano, preoccupato delle conseguenze, costrinse il riluttante Ferdinando ad accettare la revoca del provvedimento. Ferdinando, accogliendo la mediazione della Francia, che era intervenuta anche per tutelare i propri interessi, decise di capitolare pagando, per di più, un pesante indennizzo alla società Taix-Aycard che rinunciava all’impresa e, perfino, ai sudditi inglesi che affermavano di essere stati danneggiati dall’incauto provvedimento del sovrano napoletano. Si manifestò anche in questa occasione una deleteria subordinazione dei paesi detentori di materie prime nei confronti dei paesi che queste materie prime sfruttavano e sulle quali costruivano le proprie fortune. Quel che sorprende è che nessuna voce siciliana si sia levata non tanto per sostenere una decisione giudicata poco opportuna del sovrano ma almeno per difendere gli interessi reali della Sicilia. (Pasquale Hamel)