di Marinella Correggia (foto accanto) «Fa un caldo infernale sotto queste tende»: l’estate 2015, la più torrida degli ultimi anni, ha spossato i “residenti” dei campi profughi in Iraq, Siria, Turchia, Libano. Milioni di persone. La loro condizione cristallizza quattro crisi del nostro tempo: guerre, cambiamenti climatici, terrorismi e – dunque – migrazioni forzate. I numeri, le persone, le cause Volendo accorpare gli spostamenti forzati di esseri umani in base alle cause, si può azzardare questo schema: migranti per le guerre e le violenze, spesso condotte o quantomeno fomentate dall’Occidente in Paesi terzi; migranti economici, vittime anche degli sfruttamenti coloniali e neo-coloniali, molti di loro fuggono dalla fame o dalla miseria; migranti ambientali, costretti a fuggire per disastri, siccità, inondazioni e altri fenomeni in genere legati al caos climatico, altra storica responsabilità dell’Occidente. Il rapporto dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati del 2015 riferisce di un totale di 59,5 milioni di persone – fra sfollati interni e profughi oltrefrontiera – sradicate dai loro luoghi di residenza e di vita «per guerre, conflitti e persecuzioni». La grandissima maggioranza di loro rimane lontana dall’Occidente, dai nostri occhi. Iraq 1991, operazione “Tempesta nel Deserto”. Bombe e successivo embargo mettono in fuga un milione di lavoratori stranieri; l’Arabia Saudita, poi, espelle 800mila yemeniti perché il loro Paese non ha votato a favore della guerra all’Iraq. 2003-oggi, Iraq. Dopo l’invasione anglostatunitense “Iraqi Freedom” e la successiva guerra settaria, almeno tre milioni di iracheni si trasformarono in sfollati interni e rifugiati all’estero. Dal 2014, poi, un milione e 800mila iracheni fuggono anche dal sedicente Stato Islamico. 2011, Libia. Con le bombe della Nato e la concomitante “caccia al nero” lasciano la Libia 800mila lavoratori migranti. In seguito emigrano anche quasi due milioni di libici, distribuiti soprattutto fra Tunisia ed Egitto. 2011-oggi, Siria, guerra per procura. Sei milioni e mezzo di siriani sono diventati sfollati interni; tre milioni hanno lasciato il Paese come profughi. Una minoranza bussa alle porte d’Europa. 2015, Yemen, bombardamenti (con ordigni anche italiani) della coalizione a guida saudita. Oltre un milione di residenti si sono spostati in altre zone del Paese. Prima dei bombardamenti lo Yemen, sebbene poverissimo, accoglieva centinaia di migliaia di rifugiati somali. Migranti ambientali. Invisibili… Quanto agli spostamenti per cause ambientali, il Global Estimates 2015. People Displaced by Disasters, dell’Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc) stima che nel 2014 oltre 19,3 milioni di persone siano state obbligate ad abbandonare le proprie case a causa di disastri o rischi ambientali. Secondo lo State of the World 2015 del World Watch Institute, fra il 2008 e il 2013 intorno ai 140 milioni di persone hanno dovuto migrare a causa dei disastri climatici. Stime esagerate? Stando al programma Onu per l’ambiente, entro il 2060 il solo continente africano registrerà 50 milioni di «migranti del clima». E l’Unhcr stima che nel 2050 i profughi ambientali arriveranno a 200-250 milioni. Come spiega il documento di lavoroMigrazioni e cambiamento climatico(ottobre 2015) a cura di Wwf, Focsiv e Cespi, bisogna fare attenzione agli hot spot, aree del mondo che più di altre subiranno le conseguenze del caos climatico e che quindi vedranno partire profughi a decine di milioni. Le regioni aride e semiaride vedranno amplificato il fenomeno della desertificazione. I delta dei grandi fiumi, le città costiere e le isole saranno esposti a inondazioni, erosioni, salinizzazioni. La penuria di acqua si accompagnerà a una maggiore insicurezza alimentare. Il Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2015 di Anci e Caritas spiega che «in ambito internazionale non esiste una definizione univoca in grado di indicare un migrante spinto o costretto da motivazioni ambientali». Eppure il termine “rifugiato ambientale” fa capolino già nel 1976. L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni utilizza questa classificazione: migranti per l’emergenza ambientale (migranti temporanei a causa di un disastro naturale); migranti forzati per cause ambientali (costretti dal degrado dell’ambiente: deforestazione, siccità, salinizzazione, ecc.); migranti motivati da cause ambientali (per l’intensificarsi di problemi come ad esempio la perdita di produttività agricola). Il Parlamento europeo nel 2011 ha proposto la definizione di «sfollati per ragioni ambientali» e «migranti per ragioni ambientali». I Paesi più ricchi e di vecchia industrializzazione hanno creato, creano e creeranno profughi climatici. Eppure… … e senza tutele La Terra è di tutti. Basterebbe questo a sancire il diritto di ogni persona a spostarsi altrove, soprattutto se in condizioni difficili. Un principio forse troppo rivoluzionario, come quest’altro: la terra a chi la lavora. Ragionando in maniera moderata e razionale, dovremmo perlomeno accogliere tutte le vittime dei danni bellici, ambientali, economici che infliggiamo al mondo. Viste le gravi responsabilità occidentali, storiche e attuali, il risarcimento danni dovrebbe comprendere almeno l’accoglienza. Eppure pochi sono gli eletti: solo una minoranza di migranti bussa alle nostre porte, e solo le vittime di alcune guerre ottengono protezione. Nella sua enciclica Laudato si’, anche papa Francesco sottolinea il nesso fra cambiamenti climatici e migrazioni forzate e ricorda che oggi il rifugiato climatico-ambientale non ha riconoscimento giuridico. In sé non ha nemmeno diritto a una protezione umanitaria, eppure è molto difficile isolare le cause della fuga: guerra, clima, ambiente, ragioni economiche. I conflitti e i problemi climatico-ambientali sono spesso legati in modo biunivoco. Mohamed, lavoratore migrante in Libia fino al 2011, tornato nel suo Niger a causa delle bombe della Nato (dunque fuggiasco di guerra), se provasse a fuggire in Europa a causa della siccità sarebbe considerato un migrante economico, dunque irregolare, e non avrebbe nessun diritto a rimanere, salvo un provvisorio permesso umanitario… La guerra in Siria, principale fonte di richieste di asilo oggi, affonda in parte le sue radici nella pesante siccità che aveva reso invivibili le campagne del Paese, con il conseguente ammassarsi di centinaia di migliaia di contadini impoveriti nei centri urbani (popolati, dal 2007, anche da moltissimi iracheni). La devastante siccità era dovuta alla mancanza di piogge combinata con la costruzione di enormi dighe sul fiume Eufrate in Turchia. Quindi una famiglia ex contadina siriana, profuga interna od oltrefrontiera, potrebbe anche essere classificata nella categoria dei migranti climatici. I cittadini del Bangladesh che sopravvivono in una baraccopoli a Dacca o nell’indiano West Bengal a causa delle inondazioni ripetute nelle loro campagne, se arrivassero in Europa, sarebbero probabilmente considerati migranti economici e quindi respinti. Ed è stata respinta, dalla Nuova Zelanda, anche la richiesta di asilo ambientale avanzata da un cittadino di Kiribati, arcipelago che sta scomparendo per l’innalzamento del livello dei mari. Malgrado il ruolo del disastro ambientale nelle migrazioni, sotto il profilo della tutela giuridica da riconoscere alle vittime la strada è ancora lunga e ostacolata o rallentata dal fatto che la maggior parte delle persone che migrano per motivi ambientali rimangono dentro i confini della loro nazione. Nel Documento Climate Change, Environmental Degradation, Migration della Commissione Ue si accenna sì al rapporto fra migrazioni e clima, ma ci si limita all’approccio migrazione-sviluppo che prevede interventi a mo’ di aiuti nei luoghi di origine. Qualcosa, tuttavia, si muove. Svezia e Finlandia hanno inserito la categoria dei rifugiati ambientali nelle rispettive politiche migratorie nazionali. Nell’ordinamento italiano, l’art. 20 del Testo Unico sull’immigrazione fa esplicito riferimento alla protezione temporanea da adottarsi, «per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea». Che cosa dovrebbe fare l’Europa, responsabile di tante crisi climatiche, belliche ed economiche? La Conferenza Nansen su Cambiamenti climatici e spostamenti nel XXI Secolo (Oslo, 2011), ha ritenuto fuorviante il termine «rifugiati ambientali» raccomandando: «La comunità internazionale dovrebbe intervenire per frenare il cambiamento climatico, migliorare radicalmente la prevenzione dei disastri, costruire la resilienza, aumentare la capacità di intervenire e dare risposte efficaci, supportare l’aiuto finanziario (…) e rafforzare la protezione per le persone sfollate, sia all’interno che all’esterno del loro Paese». La prevenzione, ça va sans dire, si fa anche cambiando i modelli economici killer del clima. Se non è troppo tardi. Con la Risoluzione del 17 dicembre 2015 il Parlamento Ue si impegna ufficialmente a «partecipare attivamente al dibattito sul termine “rifugiato climatico”, compresa la sua eventuale definizione giuridica nel diritto internazionale o negli accordi internazionali giuridicamente vincolanti».
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L’autrice di questo articolo è Marinella Correggia, eco-pacifista, giornalista, traduttrice. Fra i suoi libri: “Lo zucchero amaro di Carlos José” (1998); “Si ferma una bomba in volo?” (2003); “Diventare come balsami” (2004); “La rivoluzione dei dettagli” (2007); “El presidente de la Paz” (2015)