GIOVANI CON LA VALIGIA
ROMA - Giovani, ricercatori, specializzati e no: spazio ai numeri nella videoconferenza su ““Vecchia” e “nuova” emigrazione italiana all’estero” promosso oggi pomeriggio dal Dossier Statistico Immigrazione – Idos.
Diversi gli interventi susseguitisi online che saranno approfonditi nel numero monografico della rivista Affari Sociali e Internazionali, che con il convegno di oggi compone il progetto di ricerca del Centro studi finanziato dalla Farnesina. Vicepresidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, Antonio Ricci ha illustrato le “Caratteristiche socio-statistiche della nuova emigrazione italiana all'estero”, parlando di un vero e proprio “corto circuito” per il nostro Paese che vede il 32% dei suoi laureati partire a causa di quello che l’Ocse ha definito “un equilibro poco qualificato”. Giovani che partono soprattutto da regioni del Centro e del Nord verso moltissimi Paesi in quella che è stata definita una “atomizzazione delle destinazioni”. Da molti paesi, a causa della pandemia, in tanti hanno cercato di tornare, ma tanti, soprattutto quelli giovani e più integrati economicamente, hanno “retto bene”, almeno secondo un sondaggio di Centro AltreItalie, continuando a lavorare e, in un caso su 10, anche fruendo degli ammortizzatori sociali in loco”. Al tempo stesso, però, in tanti erano in difficoltà: Ricci ha riportato i dati del Cgie che ad aprile stimava che “in pochi mesi sarebbero rientrati in Italia quasi 150mila lavoratori a causa della probabile chiusura delle loto piccole e medie imprese oltre confine, in particolare della ristorazione”. Secondo il consiglio generale “i più colpiti sono gli italiani di recente emigrazione meno integrati e più propensi a tornare in patria”. Quanto agli studenti, secondo l’Unesco quelli universitari italiani all’estero all’inizio della pandemia erano 75.954, soprattutto nel Regno Unito, Austria, Germania, Francia e Spagna. Non ci sono dati su quanti siano riusciti a tornare in Italia da marzo e quanti siano poi ripartiti a settembre. Secondo Indire, erano 47mila gli studenti italiani in Erasmus nell’ultimo semestre, soprattutto in Spagna Francia e Germania. Anche per loro, ha sottolineato Ricci, la pandemia ha significato scegliere tra il restare e il tornare, anche in base alle loro disponibilità economiche. Ricercatore e membro della redazione di Sbilanciamoci!, Leopoldo Nascia si è invece soffermato su “L'emigrazione dei ricercatori italiani”. Per i ricercatori “la mobilità è normale”, anzi rappresenta “un aspetto positivo della sua carriera”, senza contare che l’Unione Europea attua “politiche di mobilità per i ricercatori” dunque la favorisce. Il punto è che nessuno, o meglio pochi vengono in Italia e quindi “il senso unico diventa fuga dei cervelli”. Con l’aiuto di slide e numeri, Nascia ha spiegato che i “fattori che creano il presupposto di questa mobilità sono le risorse per l’innovazione e la ricerca e la struttura dell’economia” due ambiti in cui l’Italia mostra tutte le sue carenze. Come emerso in tantissimi studi e ricerche, la formazione nel nostro paese rimane validissima, come dimostrato per altro anche dal numero delle pubblicazioni dei ricercatori italiani (terzi nella classifica generale), dunque l’anello debole rimane l’incapacità del sistema universitario di mettere a frutto questa formazione per lo sviluppo del Sistema Paese. Secondo i dati mersi da un progetto finanziato dalla CE – JRC sul caso dell’Italia, la crisi del 2008 e le politiche di austerità hanno dato vita ad una “grande ondata migratoria”; tra chi ha lasciato il nostro paese anche 13mila laureati all’anno; nel periodo 2008-2019 sono emigrati anche 14mila PhD italiani. Ad Alessandro Rosina, docente di demografia presso l'Università Cattolica di Milano, il compito di tratteggiare “La mobilita internazionale del XXI secolo: fuori dai confini, dentro la rete”. Facendo riferimento al rapporto dell’Istituto Toniolo, Rosina ha esordito osservando che “non si è giovani allo stesso modo in tutte le epoche: cambia il mondo e cambiano anche i giovani”. Dunque “non si può considerare allo stesso modo chi decideva di partire negli anni 60 e chi lo fa oggi” perché “i giovani nati in questo millennio quando pensano alle opportunità non guardano fuori dalla finestra al quartiere, ma accendono un pc connesso col mondo”. Loro “sono la prima generazione che si confronta istantaneamente con tutto il pianeta”. “Se in passato la decisione di partire era definitiva, soprattutto se transoceanica, oggi non è più così”, ha detto Rosina. “C’è un’idea molto più fluida e flessibile della partenza”. Se poi la permanenza all’estera diventa “non ritorno” è perché “manca l’occasione giusta per il rientro”, perché “non è possibile valorizzare in Italia l’esperienza fatta altrove”. Oggi, ha aggiunto, “c’è una grande articolazione nelle condizioni di chi parte, ma anche nelle loro motivazioni”. Dal Rapporto dell’istituto Toniolo emerge che “nel valutare l’andare all’estero per i giovani italiani è più alta, rispetto ai coetanei europei, sia la componente positiva di questa scelta che quella negativa della necessità”. Loro hanno “la percezione di vivere in un Paese povero di opportunità”, come confermano le motivazioni della partenza che vedono ai primi posti non sole le retribuzioni, “ma ancora di più le possibilità di crescita professionale rispetto al merito”. Questo perché “se per i vecchi migranti la partenza dipendeva anche da cosa si trovava all’estero, per gli “expat” conta ciò che nel nuovo contesto riescono a portare di sé”. (ma.cip.\aise)