Però, dal 7 maggio in poi, da quando cioè si sono messi in atto i respingimenti, il numero di persone arrivate clandestinamente in Italia si è drasticamente ridotto, praticamente azzerato. Lo ha detto il ministro dell'Interno Roberto Maroni il 25 maggio nella sua informativa in aula a palazzo Madama sulla politica dell'immigrazione. Poche ore più tardi, aprendo i lavori della 59ª assemblea generale della Cei, il cardinale Luigi Bagnasco ha replicato affermando che «l'immigrazione va governata avendo come primo criterio dignità e diritti degli immigrati, e non si affronta né solo con l'ordine pubblico né prevedendo sconti in nome di un malinteso multiculturalismo». L'ultimo "rimedio", in ordine di tempo, adottato dal governo italiano per fronteggiare l'immigrazione clandestina si chiama «respingimento», ovvero bloccare in acque internazionali le imbarcazioni dirette in Italia e rispedirle da dove sono salpate. Misura efficace, stando ai primi risultati, ma che ha suscitato indignazioni, polemiche e decise prese di posizione, anche all'interno della stessa maggioranza: «non è vero che una cultura di destra deve essere a favore dei respingimenti nei confronti degli immigrati - ha affermato il presidente della Camera Gianfranco Fini - ma piuttosto serve una politica di integrazione». L'onorevole Antonio Di Pietro - non certo tenero nei confronti del centrodestra - si è detto invece favorevole ai respingimenti in mare, a patto che siano rispettosi del diritto marittimo e del diritto di asilo. Di integrazione, dignità e multiculturalismo si parla da anni, in un'Italia che è passata - senza quasi accorgersene - da paese di migranti a terra, al centro di un incontrollato e per certi versi incontrollabile fenomeno immigratorio. Sarà forse per questo che da più parti si tira in ballo la nostra storia di popolo con la valigia in mano: «noi che siamo stati costretti ad andarcene in ogni parte del mondo - è questo l'assunto - dovremmo capire che cosa significhi migrare e pertanto dovremmo essere più sensibili, disponibili e accondiscendenti nei confronti di quei miserabili che oggi sbarcano sulle nostre coste». Tutto vero, ma evocare il fatto che l'Italia sia stata per almeno un secolo (dal 1870 fino a tutti gli anni Sessanta del 900) terra di grande emigrazione serve a poco, per il semplice motivo che gli italiani non conoscono quello straordinario fenomeno socioeconomico che ha visto partire quasi 30 milioni di persone. E se a questo già impressionante numero aggiungessimo la migrazione interna, quella sull'asse sud-nord favorita dal boom economico degli Anni 60, è di tutta evidenza che non c'è famiglia italiana che non abbia visto partire - temporaneamente o per sempre - almeno uno zio, un cugino, un fratello. Eppure le nuove generazioni, i trenta e quarantenni di oggi (politici compresi), di tutto ciò non sanno nulla. Non conoscono l'argomento perché nessun testo scolastico ha mai pensato di inserire un capitolo dedicato a queste vicende, pur fondamentali per comprendere l'Italia del recente passato e quella odierna; ed anche perché - inutile negarlo - le stesse famiglie hanno sempre cercato di "nascondere", di tacere. Le partenze sono da sempre considerate sinonimo di miseria e di povertà . E annoverare qualcuno, nella cerchia dei familiari, che è stato costretto ad andarsene non ha mai costituito motivo di vanto. Anzi, è un "marchio" di indigenza che è meglio dimenticare. Di migrazioni italiane ve ne sono state parecchie e molto diverse fra di loro a seconda dei paesi di destinazione e dell'epoca storica. Nelle sterminate piantagioni di caffè dello Stato di San Paolo siamo andati a sostituire il lavoro degli schiavi a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento; immaginiamoci il trattamento che ci veniva riservato. Nello stesso periodo migliaia di famiglie del Veneto, del Friuli, del Trentino e della Lombardia sono state catapultate negli impervi territori del Sud del Brasile. Come siamo stati accolti ? Benissimo, non c'erano che foreste di araucarie e bestie selvagge a darci il benvenuto. Nei primi anni del Novecento abbiamo popolato San Paolo, che è diventata la metropoli che è grazie soprattutto al lavoro dei nostri operai. Poi c'è stato il grande flusso verso l'Argentina, continuato anche nell'immediato dopoguerra. Diverso il discorso per gli Stati Uniti, dove abbiamo "esportato" prevalentemente gente, povera gente del nostro Meridione i cui figli hanno ben presto dimenticato le loro origini e cambiato i loro nomi per il desiderio di diventare "americani", di entrare a far parte del melting pot a stelle e strisce. Il Norditalia in Sudamerica ed il Suditalia in Nordamerica. Scherzi del destino. O forse un preciso disegno politico, perché in Brasile volevano gente mite, senza grilli per la testa, attaccata alla famiglia e al lavoro. E di religione cattolica. Così gli squallidi «mediatori di manodopera» (c'erano anche quelli) battevano a tappeto le vallate bellunesi, le dolci colline del trentino e la pedemontana trevisana promettendo a gente analfabeta e prostrata dalla pellagra le ricchezze di un fantomatico Paese della Cuccagna. Non partivamo alla disperata, come i migranti di oggi che salpano dalle coste libiche a bordo delle tristemente famose «carrette del mare», ma anche i viaggi dei nostri nonni e bisnonni erano viaggi di morte. Anche se non esiste ancora una stima ufficiale ed attendibile, sono a migliaia le donne, i vecchi e i bambini che non ce la fecero ad attraversare vivi gli oceani. E sono migliaia quelli che morirono precocemente nelle nuove terre, colpiti dalle febbri malariche di terre insalubri. Tempi e situazioni diverse - dunque - e pertanto non comparabili con le migrazioni di oggi. Per noi era praticamente impossibile sbarcare da clandestini a Ellis Island, a Buenos Aires o a Santos, ma Dio sa quanta gente ha passato di nascosto i confini con la Svizzera o la Francia. Identica è invece la disperazione, la miseria, la sottocultura, la fame. Identica la speranza di una vita più dignitosa. Fra le tante contraddizioni riscontrabili quotidianamente nelle dichiarazioni dei nostri uomini politici sull'argomento, ci piace osservare che proprio in una delle Regioni considerate più "razziste" e "xenofobe" - il Veneto - troviamo oggi i migliori esempi di integrazione. E' sorprendente pensare, ad esempio, che la Treviso del sindaco-sceriffo Giancarlo Gentilini sia diventata la città dove gli immigrati se la passano meglio in Italia. Ed è vero. Ha proprio detto bene qualcuno: «l'Italia è un Paese di gente civile, governato da gente...». L'autore è presidente dell'associazione "Cuore Triveneto" www.cuoretriveneto.it/