*di Francesco Gesualdi ( da Avvenire, venerdì 6 maggio 2022) - Lo sconquasso economico provocato dall’aggressione russa all’Ucraina, sta riscrivendo la geopolitica del gas facendo salire d’importanza alcune nazioni africane che fino a ieri giocavano ruoli minori sullo scacchiere energetico e dunque sulla scena del mondo.
Fra essi l’Angola, il Congo, il Mozambico, che molti Paesi europei, anche l’Italia, stanno aggiungendo alla lista dei propri fornitori, per ridurre la propria dipendenza dal gas russo. Qualcuno ha definito i prodotti minerari ed energetici ‘sterco del diavolo’, per fare intendere che dietro queste risorse spesso si celano trame corruttive e di latrocinio che arricchiscono solo piccole élite senza fare arrivare benefici alle popolazioni locali. Ma questo genere di informazioni non trova accoglienza negli indicatori di contabilità nazionale e chi pretendesse di valutare lo stato di salute delle economie basandosi solo sui numeri del Pil e delle esportazioni, potrebbe concludere che certi paesi africani hanno ottenuto vantaggi dalla crisi bellica in cui è piombata l’Europa. Invece no. In un articolo pubblicato sul suo blog, il Fondo Monetario Internazionale sostiene che tutta l’Africa subsahariana sta subendo pesanti effetti negativi a causa della guerra scoppiata in Europa. Tesi basata su tre elementi: il prezzo del cibo, il prezzo dei prodotti petroliferi, il peggioramento del debito. I lettori di Avvenire sono già infornati su questo, ma è bene ricapitolare. In quest’area del mondo l’85% del grano consumato è d’importazione, non di rado principalmente dalla Russia e dall’Ucraina. In Kenya, ad esempio, il 33% del grano importato proviene da questi due Paesi, mentre nel caso della Tanzania sale al 70%. La guerra ha bloccato le esportazioni dall’Ucraina e ridotto quelle dalla Russia e, immediatamente, il prezzo del grano ha subìto un’impennata globale. Nel mese di marzo l’aumento è stato del 19,7% sul mese di febbraio, con conseguenze gravissime per tutte le famiglie africane che destinano al cibo il 40% delle proprie entrate. Col progredire della guerra la situazione è destinata solo a peggiorare perché in Ucraina molti raccolti di quest’anno sembrano destinati ad andare persi, mentre molte terre potrebbero non ricevere la semina per il raccolto del 2023. E quei paesi che volessero trovare rimedio aumentando la produzione interna, dovrebbero fare i conti sia con l’aumento dei fertilizzanti, di cui Russia e Ucraina sono fra i maggiori produttori, sia con l’aumento dei carburanti per i macchinari. Un insieme di elementi che riducono sin d’ora, e considerevolmente, il livello di sicurezza alimentare dei Paesi africani, minacciando in particolare i poveri delle aree urbane. Come anche i non addetti ai lavori ormai sanno, la Russia oltre che di gas è anche grande produttore ed esportatore di petrolio, il cui prezzo è inevitabilmente aumentato con lo scoppio della guerra. Il Fmi ha calcolato che ai Paesi africani importatori di petrolio l’aumento della bolletta energetica comporterà nel 2022 un maggiore esborso collettivo stimato in 19 miliardi di dollari.E sebbene sia vero che i produttori di petrolio esistenti nell’area subsahariana beneficeranno degli aumenti, l’effetto sarà solo parziale perché per assurdo molti di loro pur producendo petrolio debbono importare benzina a causa del fatto che non dispongono di impianti di raffinazione. Valga come esempio la Nigeria che pur essendo il primo produttore africano di petrolio, importa tutta la benzina che le serve. L’Opec certifica che nel 2020 la Nigeria ha speso 71,2 miliardi di dollari per l’importazione di prodotti petroliferi raffinati, mentre dalla vendita di petrolio grezzo ha incassato 27,7 miliardi di dollari. Un saldo negativo di oltre 43 miliardi di dollari. L’aumento del prezzo del cibo, dei fertilizzanti, dei prodotti energetici, non farà altro che peggiorare il debito commerciale dei Paesi africani contribuendo alla lievitazione del loro indebitamente. Gli ultimi dati disponibili riferiti al 2020 dicono che Il debito estero complessivo dell’Africa subsahariana ammonta a 702 miliardi di dollari, per il 65% a carico dei governi. E considerato che il biennio 2020-2021 è stato un periodo orribile per tutti a causa del Covid, il Fmi teme che gli choc provocati dalla guerra all’Ucraina possano mettere definitivamente al tappeto molti governi africani che durante il Covid hanno visto accrescere i propri deficit a causa di una riduzione del gettito fiscale e un aumento delle spese pubbliche, soprattutto di carattere sanitario. Metà dei Paesi a basso reddito dell’area subsahariana sono già ad alto rischio di bancarotta. E ora il rischio si fa più concreto, visto e considerato che il mancato rilancio economico dovuto all’aumento dei prezzi mondiali limiterà ulteriormente i gettiti fiscali, mentre le spese pubbliche sono destinate a crescere ancora per due ragioni principali. Da una parte per sostenere i cittadini alle prese con l’aumento dei prezzi di beni di prima necessità; dall’altra per tamponare la spesa per interessi che i tassi in salita stani facendo correre. Sullo sfondo di tutto questo, c’è il rischio che la corsa al riarmo faccia ridurre il flusso di denaro, già scarso, che i Paesi ricchi destinano alla cooperazione internazionale e che hanno promesso a quelli poveri per aiutarli superare sia le criticità create da cinque secoli di colonialismo sia quelle dovute al dissesto climatico e ambientale. La prova concreta di come la spesa in armamenti sia una dichiarazione permanente di guerra ai più poveri anche quando cannoni e missili sembrano far danno solo altrove.
ARTICOLO PRESO DA CAMBIAILMONDO - FONTE: Avvenire 6-5-22
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