Continua la carrellata del nostro collaboratore Vito Marino, che ci presenta una serie di usi dei nostri nonni ed anche prima, che segna o le caratteristiche della cultura contadina della società antica, ma senza disdegnare anche qualche puntata sui comportamenti della nobiltà,
cosa che fa presentandoci oggi una usanza che viene da lontano e si è affermata con il termine dialettale di “ritrattu”, ma vediamo co me ce l’ho descrive Vito. (SA)
LU RITRATTU: Nel 1800 il ritratto come quadro pittorico ebbe una importante funzione per immortalare la figura dei nobili. I pittori si davano da fare per rendere la figura più bella, meno grassa e più giovanile. I quadri poi venivano appesi a fare bella mostra nei saloni e nella biblioteca del palazzo signorile. Ma alla fine del 1800 e all’inizio del 1900 diventò di moda anche il ritratto fotografico accessibile anche alla classe più umile della popolazione. Si cercava di immortalare i momenti più importanti della vita, ad iniziare dal matrimonio e, oltre al classico ritratto degli sposi, si eseguivano foto di gruppo, per il ricordo imperituro dei genitori, dei suoceri, degli zii e dei bambini, che un giorno, da adulti, avrebbero ricordato quei momenti. Intorno agli anni ’50 del secolo scorso, per il paese giravano molti ambulanti. A causa della disoccupazione, gli artigiani si cercavano loro il lavoro di casa in casa. Fra costoro c'era anche il fotografo ambulante, che con una grossa macchina fotografica e relativo treppiede, faceva "li ritratti" girando di cortile in cortile. Molto caratteristico era il preparativo: dopo avere collocato sul treppiede la macchina fotografica e preparata una bacinella con l’acqua per mettervi dentro le foto appena fatte, iniziava col coprire la parte del muro interessato dalla foto con un lenzuolo o coperta, perché i muri di allora erano spesso scrostati; la messa in posa era molto lunga e laboriosa; infatti, come ornamento bisognava mettere i vasi di fiori (generalmente foglie d’ombra) ai lati del soggetto, occorreva aggiustare la posizione della testa, i sorrisi, aspettare che il sole facesse capolino per illuminare la scena, tenere fermi i bambini, ecc. Marito e moglie dovevano tenersi sotto braccio, dritti, in piedi e messi frontalmente alla macchina fotografica, immobili in atteggiamento dignitoso con un accenno appena al sorriso. Quindi, il fotografo infilava la testa sotto un telo nero collegato alla macchina fotografica, guardava attraverso l’obbiettivo e scattava la foto. Poiché le foto erano di pessima qualità a causa delle macchine poco affidabili, un bravo fotografo le ritoccava con penna e pennelli per togliere i difetti vari o per rendere le foto a colori. Le foto che non interessavano i parenti intimi erano posti in una scatola e conservati nel I° cassetto del canterano (cassettone) e prese soltanto durante le occasioni. Quelle formato grande, venivano appese al muro, assieme alle immagini sacre; in particolare, le foto matrimoniali venivano appese nella stanza da pranzo. Un posto di riguardo spettava alle foto dei parenti intimi defunti, che venivano appese nella “cammara”, al centro delle altre, a dimostrare l’affetto per l’estinto. Dopo la morte, nella cultura cristiana del Siciliano, non c’è il nulla eterno; il defunto, infatti, continua a vivere nell’aldilà, mentre i parenti viventi parlano di lui, “bon’arma”, in ogni occasione, a perpetuare il culto dei morti in una “corrispondenza d’amorosi sensi”, per come ebbe a dire il Foscolo, fra gli estinti e i vivi. I nostri nonni si rivolgevano ai propri defunti per ottenere delle grazie; “li murticeddi”, riconoscenti, spesse volte venivano in sogno per accontentarli, dettando loro dei numeri da giocare al lotto oppure indicando loro l’ubicazione di tesori nascosti: le famose “attruvature” di cui ne parla ampiamente la nostra letteratura del passato. VITO MARINO