La NUOVA EMIGRAZIONE può essere considerata come una della più significative manifestazioni della crisi attuale del paese (e anche degli altri paesi del sud Europa). E allo stesso tempo una delle manifestazioni più preoccupanti

delle proiezione declinante dell’Italia nello scenario internazionale. Ed è forse (una valutazione che lasciamo agli storici) la conferma di una caratteristica strutturale dell’ incapacità di valorizzazione del proprio capitale umano, del nostro paese.

Per i seguenti motivi:

a)- medio-alta scolarizzazione della nuova emigrazione (oltre il 60% risulta diplomato o laureato)

b)- la nuova emigrazione si sviluppa in uno scenario globale di flessione e di crisi economica e non di sviluppo, come avvenuto nei periodi 1900-1915 o 1945-1970.

c)- la nuova emigrazione si sviluppa in uno scenario di flessione demografica del paese (accanto ad una parallela flessione che riguarda anche gran parte dei paesi che costituiscono meta di arrivo degli italiani) e non, come avvenuto dei periodi precedenti, di crescita e surplus demografico.

L’impressione è che quindi ci si trovi di fronte ad una nuova tipologia di migrazione che potrebbe essere definita “estrattiva” o di drenaggio di risorse, analogamente a quanto si definisce con questo termine, lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali nei paesi periferici, ripreso negli ultimi decenni, da parte del grande capitale multinazionale che trova la sua collocazione solo in alcuni paesi guida, e in contrasto con ipotesi alternative di sviluppo che compendiano la possibilità di una crescita sostenibile dal punto di vista sociale ed ecologico. Cioè di un equilibrio tra risorse disponibili ed paesi/aree/continenti. Ovviamente, questo è un discorso che riguarda sia la nostra nuova emigrazione che l’immigrazione terzomondiale verso l’Italia e l’Europa.

Il fatto che paesi come la Germania stiano sviluppando un piano di acquisizione di risorse umane dal resto del mondo per contenere la propria flessione demografica (- 10milioni previsti per il 2050), così come altri paesi sviluppati o in via di sviluppo stanno facendo o cercando di fare, configura il fenomeno della nuova emigrazione italiana entro scenari anche teorici in parte diversi da quelli su cui storicamente abbiamo ragionato:

appare sempre più difficile sostenere un’idea di emigrazione come risorsa che può alimentare (attraverso le rimesse o la crescita di competenze di ritorno) i paesi erogatori e allo stesso tempo ridurre le tensioni sociali ed economiche causate da una sovrappopolazione rispetto alla capacità di assorbimento delle rispettive economie di partenza dei flussi.

Sembrerebbe più adeguata una lettura dei nuovi flussi, come flussi aspirati (o accaparrati) dai paesi più forti, visto che il circuito di valorizzazione capitalistica li esige parallelamente allo sviluppo tecnologico che sono in grado di attivare più e meglio di noi. Vi sarebbe anche da riflettere sulla possibilità che lo sviluppo tecnologico e l’automazione, necessitino, dal punto di vista della valorizzazione capitalistica, non di una riduzione, ma di un aumento delle risorse umane qualificate a disposizione. Per questo la nuova emigrazione è caratterizzata da alti livelli di scolarizzazione e di competenze. (come peraltro definito in modo cristallino dalla Legge sull’immigrazione approvata in Germania all’inizio del 2.000, che regola i flussi di ingresso in base alla qualità della risorsa immigrazione). Cosa riconfermata in occasione dell'”apertura” all’ingresso dei profughi siriani in quanto portatori di livelli di scolarizzazione e di competenze abbastanza elevate.

Allo stesso tempo, si può dire, per quanto ci riguarda, che nell’ambito di una crisi che ha distrutto oltre il 20% del potenziale industriale del Paese, ci troviamo di fronte ad uno scenario analogo a quello di un dopoguerra, con esuberi di risorse umane rispetto al potenziale industriale attivo, pur in presenza di un deficit demografico.

Dal punto di vista dei paesi accettori, questo accaparramento, soddisfa non solo l’esigenza a breve termine del sistema economico dei paesi di arrivo, ma risulta indispensabile, a lungo termine,  anche per contenere il proprio deficit demografico. In questo senso, la mercificazione del lavoro, raggiunge i suoi più avanzati livelli e si coniuga con la progettazione di società del futuro ad alta o meno alta competenza diffusa.

Il che equivale a dire che il posizionamento internazionale di paesi che fino ad ora erano relativamente collocati su livelli simili, pur con differenziazioni importanti, può bruscamente e definitivamente variare in direzione di una ricollocazione nei livelli medio-bassi della divisione internazionale del lavoro (per l’Italia).

Nei paesi di partenza, se questo trend  si consolida, inevitabilmente, ci si troverà di fronte, a medio termine, a ricadute negative: peggioramento dell’equilibrio demografico e carenza di competenze di medio-alto livello per lo sviluppo.

La proiezione dello Svimez riguardo al meridione a metà secolo (con una riduzione di 4,5 milioni di popolazione al 2050), in mancanza di politiche alternative, può riguardare anche buona parte del resto del paese ed è, in modo inquietante, parallelo alla previsione dei 10milioni di ingressi progettati dalla Germania nello stesso periodo. Vi è da rilevare, a questo proposito,  che gli ingressi in Germania, negli ultimi anni, non provengono da paesi extraeuropei (Asia o Africa), ma in parte preponderante dai paesi europei limitrofi (dell’est e del sud Europa: Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria, Italia, Spagna Croazia e Portogallo).

La nuova emigrazione, può costituire, da questo punto di vista, un nuovo Eldorado per i paesi di arrivo e un grande problema nazionale per quelli di partenza; non si tratta solo di una questione di natura politica o morale, è piuttosto un’indicazione di assoluta evidenza degli scenari attuali e di quelli che possono presentarsi a medio-lungo termine.

Immaginario e caratteristiche della Nuova Emigrazione

Si può aggiungere un’altra considerazione riferita alla tipologia e, diciamo così, all’immaginario di questi nuovi migranti; da quello che sappiamo, questi giovani o relativamente giovani migranti non pensano a rientrare; non pensano neanche a costruirsi la casa in Italia, a prescindere dal grado di nostalgia che come ogni migrante provano; sono molto realisti: hanno molti dubbi che il nostro paese possa riproporre loro condizioni di lavoro e di vita dignitose o soddisfacenti a breve o medio termine.

Se è così, si può essere certi che le agognate rimesse per contribuire al pareggio delle partite correnti e quindi alla diminuzione del debito, non vi saranno, o saranno molto irrisorie;  difficilmente vi saranno le opportunità di sviluppo immobiliare finanziate nel dopoguerra in molte aree arretrate del paese, dai capitali degli emigrati.

Sembra che la nuova emigrazione costituisca, per l’Italia, una sorta di “vuoto a perdere”. Che però è costata tantissimo al paese in termini di investimenti del paese e delle famiglie. Nell’ordine di parecchie decine di miliardi, ad oggi. Se i dati delle proiezioni da noi indicate sono corrette, di tratterebbe già oggi di oltre 100  miliardi. Se il flusso continuerà in modo analogo nel prossimo decennio questo esborso di capitale umano sarà calcolabile nell’ordine di diverse centinaia di miliardi di Euro e questo travaso andrà a produrre PIL aggiuntivo ed ulteriore in altri paesi. Si tratta cioè dell’alimentazione di uno spread ben peggiore di quello determinato dagli effetti dei movimenti globali di capitali verso i paesi centrali. E a sua volta, riducendo le opportunità di investimento, esso è destinato a costituire un volano ulteriormente negativo anche per il primo.

Prospettive e proposte

Lo scorso autunno la Filef ha ricordato il 40nnale della morte di Carlo Levi. Abbiamo recuperato in questa occasione diversi documenti, in particolare un discorso tenuto a Grassano nel 1970, il paese del suo confino negli anni 30, durante il fascismo.

In questo discorso, Levi ricorda l’espressione di Francesco Saverio Nitti, pronunciata verso il 1905 o 1906, in cui l’allora presidente del Consiglio italiano, ricordando le condizioni di vita nel meridione, dice che negli anni seguenti all’Unità d’Italia, in effetti, non vi erano molte alternative: “o si diventava briganti o emigranti”. L’espressione è nota. Meno nota la chiarificazione che ne fa Levi:

Levi sostiene che il brigantaggio, con tutti i suoi limiti e le sue ambiguità, era purtuttavia una rivolta sociale determinata dalla speranza di un mutamento. Una rivolta sociale che però fallì. Restò quindi aperta, per le plebi meridionali,  solo la possibilità –stavolta individuale- di emigrare. Cioè la possibilità di cercare Fortuna. La Fortuna è una dea che tocca i singoli, non le comunità, la Fortuna non è sociale. E’ l’alternativa individuale ad una sconfitta sociale.

Questa riflessione mi ha fatto molta impressione. Per l’oggi e per ciò che può accadere: la nuova emigrazione è in effetti, il prodotto di un fallimento; sociale e politico.

E’ l’incapacità di valorizzazione di un bene prezioso – e scarso – su cui si è investito, non di un bene in sovrappiù demografico, e forse rimpiazzabile, come poteva ritenersi nel dopoguerra da un paese sconfitto (“imparate una lingua e andate all’estero”).

Per dirla in modo più chiaro, forse non siamo del tutto coscienti che vi è già stata una sconfitta sociale e politica che è al tempo stesso la sconfitta del paese nella sua interezza. Questa sconfitta, che probabilmente terrà il paese sotto scacco per molto tempo, è quella per la quale non risulta possibile fare gli investimenti sul capitale umano di cui il paese dispone. Ciò che corrisponde ad una accettazione indiretta (e allo stesso tempo celata e oscurata) del proprio declino.

Nella nuova divisione internazionale del lavoro e del controllo delle risorse endogene di cui si dispone, le decisioni politiche che assumerà il paese saranno determinanti. Lasciare andare milioni di persone, in questo momento, significa  accettare il ruolo subalterno che qualcuno (le elite globali e le frazioni globalizzata del capitalismo nazionale) ha disegnato per noi, con l’abbaglio che possediamo alcuni settori “fuori mercato” che nessuno ci toglierà mai: beni culturali, turismo, gastronomia, design, ecc..

Da questo punto di vista, la ipotizzata sostituzione di lavoro e di popolazione proveniente da altri paesi extraeuropei, a riempire il buco che si va creando, è una questione che crea una certa inquietudine e su cui è opportuno riflettere con molta attenzione, al di là delle espressioni xeonofobe e razziste:

da una parte saremo sempre più, come già siamo, punto di primo arrivo della gioventù africana e medio-orientale, dall’altra, erogatori di altra gioventù più o meno autoctona.

Se vi fosse consapevolezza di ciò che sta accadendo, ammesso che per un lungo periodo il paese non avrà le risorse per valorizzare il proprio capitale umano, allora sarebbe più lungimirante finalizzare ed orientare i nuovi flussi di emigrazione verso destinazioni diverse da quelle prevalenti, utilizzando “l’occasione” negativa e costruendo, ad esempio, politiche di cooperazione internazionale verso paesi in via di sviluppo o che necessitano di risorse umane di un determinato livello di competenze.

In questo modo, almeno, si tratterebbe di un investimento a lungo termine, verso aree emergenti  che potrebbero essere legate in prospettiva al nostro paese, alimentando lo sviluppo di queste aree e contribuendo a ridurre il divario nord-sud, riducendo la pressione immigratoria e trasformando l’emigrazione, da ambito di accaparramento di risorse per i paesi più forti (Nord Europa, Nord America), in fattore di sviluppo cooperativo e a lungo termine con i paesi più deboli. L’America Latina e l’Africa, dovrebbero diventare, in questo caso, le nostre mete di arrivo.

Parallelamente, l’investimento che andrebbe fatto sul versante immigrazione, insieme ad adeguate politiche di integrazione, che però non risolvono in sé la questione, dovrebbe contemplare politiche di formazione e riqualificazione tali da poter riconvertire parte dell’immigrazione in agente e attore di sviluppo per i paesi di provenienza alimentando i settori di sviluppo autoctono e mirando, in primis, all’autosufficienza alimentare ed energetica.

Se in questa fase non siamo in grado di gestire adeguatamente la dinamica geopolitica internazionale in termini di COMPETIZIONE, potremmo tentare rimediare almeno parzialmente, in termini di COOPERAZIONE. E potremmo in parte farlo coniugando il diritto ad emigrare, con il diritto a non emigrare per forza, o ad emigrare dove conviene di più al paese.

In questo senso, almeno, troverebbero un ragione d’essere, gli investimenti in capitale umano già fatti e quelli da fare.

L’altra questione che ci riguarda come organizzazioni sociali e sindacali è quella di non far saltare definitivamente i ponti con la nuova emigrazione che se ne è andata e che se ne sta andando. Oltre al potenziale economico, la nuova emigrazione, proprio per la scelta che fa, rappresenta un forte potenziale critico sul piano sociale e politico che è per noi e per il paese un grande patrimonio.

Su questo piano, sarebbe decisivo strutturare una serie di misure di accompagnamento e di primo orientamento sia alla partenza che all’arrivo nei diversi paesi, che può essere facilmente organizzata attraverso le reti di servizio e associative di cui si dispone sia in Italia che all’estero.

La rete Fiei ed altre reti associative hanno già iniziato questo lavoro di orientamento. Ma questi nuovi servizi alla nuova emigrazione dovrebbero essere parte di un programma di interventi unitario e coerente che miri a tenerci vicina la migliore gioventù che abbandona il paese. Su un progetto integrato di questo tipo è tra l’altro possibile attivare finanziamenti comunitari e quelli regionali (magari evitando di sprecare miliardi di risorse comunitarie).

Infine vi è da tener presente che la messa in discussione di Schengen, derivante dal recente accordo sul Brexit, ma i cui sintomi erano già presenti nell’incedere delle pratiche di espulsioni di cittadini comunitari messi in atto già da parecchi anni da diversi paesi (Belgio, Germania), e che hanno già riguardato migliaia di cittadini italiani in Europa, configurano la necessità di servizi di assistenza e tutela anche in questo nuovo ambito.

I processi di “de-globalizzazione” in atto e di ridefinizione del rapporto tra sovranità dei singoli paesi e sovranità comunitaria, riguarderanno anche, in un modo o nell’altro, i 2,5 milioni di italiani nel nord Europa e certamente le condizioni della nuova emigrazione, anche sul piano delle prestazioni sociali e previdenziali.

C’è insomma una vasto campo di riflessione e di attività su cui misurarsi.(Rodolfo Ricci FIEI)