Fine di un ciclo? Può darsi, ma di per se non sarebbe un dramma.                                    

-  P  Per sua natura, il ciclo presuppone un inizio e una fine. Per ciclo intendo non l'esaurimento del processo politico avviato, ma una fase politica che va a chiudersi e puo' essere seguita da un'altra.

u Complessivamente considerato, il ciclo (sudamericano) non è tutto da buttare. Anzi, emergono diversi aspetti positivi, dinamici che vanno semmai aggiornati e riproposti in forme nuove;

 -         Il problema semmai è quello di analizzare criticamente le opzioni politiche, le alleanze sociali, i metodi di governo, i processi e le attese create dai nuovi organismi regionali (economici, politici e d’altro tipo) per individuare gli errori, ma anche le nuove potenzialità .                                                                                                                                                               
Poiché, chiuso un ciclo se ne apre un altro!

 A mio avviso, la questione che si pone alla sinistra, ai movimenti progressisti latino- americani non è quella di piangere sul ciclo concluso, ma di pensare a prepararne, organizzarne uno nuovo, coinvolgendo tutte le forze disponibili.

Sapendo che per spezzare il fronte avversario si devono cercare nuovi alleati con i quali condividere lotte e sacrifici, ma anche i programmi e le responsabilità di governo.

 Aprirsi agli altri e non barricarsi dietro parole d’ordine non sempre comprensibili e mobilitanti.

Una di queste mi sembra- può darsi che mi sbagli- quella del “socialismo del XXI° secolo” lanciata dai dirigenti chavisti del Venezuela, ai quali va dato atto di avere avviato uno sforzo serio per migliorare le condizioni, la qualità di vita del loro popolo.

Affascinante, ma poco mobilitante, quella parola d’ordine visto che i problemi attuali, più urgenti sono l’attacco virulento della destra, l'emergenza politica e il rifornimento alimentare della popolazione.

 Per altro, bisognerà ben chiarire cosa s’intende per socialismo prossimo venturo.  A mio parere, non sono riproponibili certe esperienze del cosiddetto “socialismo reale” portate avanti nell’ex URSS e nei Paesi dell’Europa centro-orientale.

 O nella stessa Cina popolare, con la quale è utile collaborare sul terreno delle relazioni statali,  economiche e commerciali, ma senza farsi illusioni ossia avendo ben presente la realtà della Cina che e’ divenuta una grande potenza politica e militare, uno dei gangli vitali del sistema di produzione e di accumulazione capitalista globale.

A suo tempo, la mutazione dell’Urss, da centro politico di solidarietà internazionalista a potenza politica e militare, indusse in errore i suoi dirigenti, fino al punto di proclamare, nel  22 congresso del Pcus, l’entrata dell’Urss nella fase suprema del comunismo.

20 anni dopo, di quel “comunismo”di Mihail Suslov e Leonid Brezhnev, restarono solo rovine.

Non desidero addentrarmi in una disputa ideologica. Tuttavia, era impensabile che quella esperienza, dopo soli 50 anni di tormentate vicende politiche e militari, di assedio esterno, potesse essere accreditata come “comunismo”, ossia come alternativa operante al capitalismo, a un sistema complesso e multiforme di produzione e di accumulazione che ha alle spalle almeno 3-4 mila anni di storia.

 -         Processi così impegnativi richiedono tempo e lungimiranza e in ogni caso non si possono imporre con un decreto d’urgenza.

-         Per altro- a mio parere- abbiamo da fare i conti con la storia, con la nostra storia, con le nostre stesse idee prima d’indicare obiettivi così forti, impegnativ.

-         Dobbiamo sciogliere un nodo cruciale che riguarda la concezione stessa del socialismo che per essere autentico dovra’ saper coniugare il progetto político con la democrazia e con libertà; abrogando (anche sul piano teorico) ogni riferimento alla dittatura. Compresa quella “del proletariato” che nei paesi “socialisti” si trasformò in dittatura del notabilato, della burocrazia di partito. In realtà, in quei paesi c’era poco di socialismo e molto di statalismo che è una degenerazione, una malattia senile del socialismo. 

 Il leaderismo

 Una riflessione critica merita anche la questione del leaderismo, compreso quello di derivazione costituzionale.                                                                                          

In generale, si puo’ dire che il leaderismo, specie quando e’ autoreferenziale, entra in contraddizione con i principi stessi della democrazia partecipata e mortifica il ruolo propulsivo dei partiti che sono il tramite principale del rapporto di mediazione fra popolo e progetto politico, di governo.                                                                                                                                        

Per altro, il leaderismo si offre come punto debole al  contrattacco dell’avversario il quale indirizza le sue frecce avvelenate contro il leader di turno, sapendo che abbattendo lui, abbatterà il movimento che rappresenta.

 Un po’ quello che sta accadendo in Sud America, anche grazie a certi meccanismi costituzionali che - a mio avviso- inficiano il principio della sovranità popolare elettorale. Certo, ogni popolo si dà le leggi che più desidera.                                                                                                                  

 Tuttavia, penso che un presidente                                                     

eletto dal popolo può essere destituito dal Parlamento solo per gravissime e comprovate accuse e non da una “congiura parlamentare” come e’ avvenuto in Paraguay, in Brasile e che ora si vorrebbe riproporre in Venezuela. Stanno smantellando un grandioso processo di sviluppo sociale democratico ricorrendo al “golpe” parlamentare. Un gruppo di parlamentari che hanno prevaricato la volonta' di decine e decine di milioni di elettori.

Tutto ciò è inaccettabile, anche per la comunità internazionale. In ogni caso, il successore non può essere espressione dei “ congiurati”, ma deve essere eletto dal popolo, col voto democratico.

                                                                                                                       

Le risorse dell’America latina                                                                                                          

Ovviamente, tutto cio' presuppone l'esistenza di un "piano" finalizzato al controllo politico e delle enorme ricchezze dell’America latina.

Ritorna la domanda: le risorse dei Paesi in via di sviluppo sono una ricchezza o una maledizione?

Dovrebbero essere una ricchezza, un’opportunità di equilibrato sviluppo. In realtà si stanno dimostrando una sorta di maledizione per i Pvs, poiché sono fonte di conflitti interminabili, di guerre micidiali.

A causa delle loro risorse naturali, l’America latina e la regione “Mena” (Medio Oriente e nord Africa) sono divenute cibo prelibato per gli interessi strategici delle multinazionali, dei banchieri. Per altre vie e con altra intensità, il discorso riguarda anche l’Africa sub-sahariana destinata a diventare, nel medio termine, una delle aree principali della corsa all’accaparramento e quindi dello scontro globale.

In Medio Oriente sono state scatenate guerre devastanti per il controllo delle risorse energetiche. In America latina, per fortuna, non ci sono guerre, ma si assiste a una corsa sfrenata per l’appropriazione delle sue importanti risorse umane (disponibilità di mano d’opera a basso costo) e naturali: energetiche, idriche, alimentari, minerarie, boschive, ecc.  

Per dare l’idea dell’importanza di tali risorse segnalo solo un dato: quello del Venezuela che detiene riserve accertate di petrolio corrispondenti a 300 anni di produzione ai livelli attuali! (Fonte: report Eni, 2014)

Un dato clamoroso che spiega la pervicacia dei gruppi di potere locali e delle oligarchie nordamericane decisi a riappropriarsi del Paese, a ogni costo.

 Chi riuscirà a controllare tali ricchezze avrà in mano una leva potente di potere e di ricatto che condizionerà i mercati, la politica, la vita della gente in questo nuovo secolo.

 Confronti e scontri drammatici che sembrano muoversi in vista di un nuovo bi-polarismo (spartizione) del mondo fra Usa e l’asse Cina/ Russia. Una spartizione che sposterà nel Pacifico l’asse dello sviluppo e il cuore del mercato mondiali.

Tendenza confermata anche dalla recente, inattesa decisione del presidente delle Filippine di abbandonare il secolare rapporto di dipendenza dagli Usa per stabilire relazione politiche e di cooperazione economica con Cina e Russia.

Il neoliberismo Il neo-liberismo ha vinto il confronto con il sistema delle “democrazie socialiste” e detiene gran parte del potere sul mondo. Mai un “impero” aveva avuto tanto potere! 

La sua vittoria si è realizzata, prima di tutto, sul piano culturale, del costume, degli stili di vita, dei consumi, delle tecnologie, ecc..

Esso avanza e penetra anche nelle poche società politicamente “fuori controllo” e/o dei Paesi poveri o in via di sviluppo.

Da qui anche l’origine dei nuovi grandi flussi migratori da Sud verso il Nord (Europa e Nord America in particolare)

Le novità fondamentali introdotte dal neo liberismo, i suoi punti di forza sono l’imposizione di un modello globalizzato di finanziarizzazione dell’economia e di militarizzazione delle relazioni internazionali.

A tale propósito, in Europa- sotto le insegne della Nato- si sta ridestando un pericoloso fervore militarista, interventista.

E’ stato capovolto il rapporto gerarchico fra economia e finanza, tradizionalmente a favore della prima, e sconvolto tutti i processi, gli sforzi per giungere a una politica di convivenza pacifica, di disarmo. 
Lo stesso ruolo dell’Onu è stato travolto, umiliato.

In primo luogo, si cercano nuovi mercati e materie prime strate­giche da sottrarre ai paesi poveri per alimentare l’assurdo mo­dello occidentale di sviluppo e di consumi che sta portando l’umanità alla guerra e la Terra alla distruzione.

L’obiettivo è l’approvvigionamento, a prezzi di favore o di rapina, delle materie prime tradizionali, in particolare ener­getiche e di quelle pregiate, più rare quali: rame, uranio, litio, platino, oro, diamanti, manganese, titanio, alluminio, ecc) necessarie per alimentare lo sviluppo dei settori tecnologici più avanzati.

L'accaparamento di enormi estensioni di buona terra destinate alla monocoltura, delle risprse idriche, boschive, ecc.
Con l’entrata in campo delle nuove potenze industriali BRICS ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud-Africa, tale corsa si è intensificata, facendo crescere il fabbisogno totale di materie prime.

 I flussi migratori: una doppia opportunità per il neoliberismo

 Un altro punto cardine della nuova strategia neo-liberista è costituito dall’uso spregiudicato, spietato dei flussi migratori clandestini, irregolari, dal terzo e quarto mondo verso il primo.

Quello che noi viviamo come un dramma umano, provocato dalla miseria, dalle guerre assurde, per il neo liberismo è una opportunità per aumentare i profitti.

Nel secolo scorso, le migrazioni avvennero, in gran parte, regolarmente (addirittura contrattate fra gli Stati) e orientate  verso paesi caratterizzati da economie in forte sviluppo quali quelli del centro-nord Europa e le Americhe.

Anche oggi si potrebbe organizzare un’emigrazione regolare, legale, più umana, sulla base di accordi bilaterali e multilaterali, come abbiamo riproposto recentemente. 
Vedi in: http://www.emigrazione-notizie.org/news.asp?id=11679

 Ma nessuno vuole le migrazioni legali perché ritenute, economicamente, poco convenienti.

Percio’, si continua a incoraggiare le partenze clandestine di massa (gestite dalla criminalità e dal malaffare politico) anche verso Paesi in crisi, addirittura in recessione, con indici di disoccupazione altissimi, come sono, attualmente, diversi paesi dell’Europa del sud e anche del centro.

In realtà, gli strateghi occulti usano le migrazioni per raggiungere almeno due obiettivi:

- da un lato “svuotare” i paesi d’origine delle forze più giovani (potenzialmenti ribelli) e avere così, con la complicità dei governi locali, corrotti e imbelli, le mani libere per fare e disfare le cose, di condizionare, sfruttare le loro risorse;

- dall’altro lato, stravolgere, deregolamentare, condizionare i “mercati” del lavoro dei paesi  destinatari, creando una formidabile “riserva” di manodopera a basso costo (spesso a nero) per rimpiazzare e/o condizionare i lavoratori dei paesi d’accoglienza.

Il dato è già evidente, ma nessuno vuole considerare gli enormi costi sociali e politici che stanno pagando (pagheranno) le società d’origine.
Nemmeno la “sinistra”, le “organizzazioni umanitarie” che, forse senza rendersene conto, fanno il gioco del grande capitale multinazionale il quale, per massimizzare i profitti e, al contempo, vanificare le conquiste contrattuali dei lavoratori del Nord, sta svenando le società del Sud, bruciando il futuro d’interi continenti, ingenerando nuovi squilibri sociali all’interno delle società di accoglienza.

Insomma, invece di favorire il trasferimento di tecnologie e saperi dal primo al “terzo, al quarto mondo” (il “secondo” è indefinibile), stanno trasferendo questi mondi nel primo.

Non a caso due sono le principali porte d’ingresso: il Messico per i flussi provenienti dai paesi dell’America latina e i Paesi del sud-europeo (in particolare Italia, Grecia e Spagna) per i flussi provenienti dal mondo arabo, dall’Africa e dall’Asia.

Queste e altre rotte secondarie sono controllate da potenti gruppi criminali, da bande di gente senza scrupoli che fanno dei disperati in cerca di lavoro un disumano mercimonio di cui sono tragica conferma le migliaia di morti annegati nel Mediterraneo e/o massacrati lungo i confini fra Messico e Usa dagli aguzzini addetti alla preparazione dei “carichi” umani.

 L’Occidente, eterno sprecone

 Tutto ciò contribuisce a rendere più difficile la gestione politica e diplomatica della “crisi” che sempre più si manifesta anche come crisi del pensiero occidentale. Poiché, non c’è dubbio che quando per risolvere una crisi politica o d’altro tipo si ricorre alla guerra vuol dire che si è esaurita la capacità egemonica di tipo culturale e morale.

Crisi culturale derivata dai processi di omologazione, dall’infiacchimento della demo­crazia partecipativa e della laicità degli Stati, dalla scomparsa dei grandi partiti di massa e dall’umiliazione della politica oramai asservita ai disegni della finanza e delle con­sorterie economiche internazio­nali, dal dilagare della corruzione e dei poteri criminali.

Soprattutto, pesa la crisi del modello dei consumi (esorbitanti) e della struttura economica dell’Occidente, che non riesce a produrre la ricchezza (tanta) che consuma, importa e spreca enormi quantità di energia di origine fossile, inquinando il Pianeta, e che per procurarsele tormenta l’umanità più po­vera con guerre micidiali, interminabili.

Ai piani alti del potere oligarchico l’arroganza si alterna al nervosismo. Si teme che, a conclusione di questo pro­cesso di globalizzazione, probabilmente, l’Occidente non sarà più il principale protagonista della storia.

 In realtà, il liberismo si sta dimostrando incapace di governare le economie e gli Stati.

Alla sua prima uscita in pubblico, questo neo capitalismo, liberista solo a parole giacché i conti dei suoi disastri li continua a scaricare sui bilanci degli Stati e dei cittadini (vedi crisi delle borse in Usa), non è stato all’altezza dei compiti derivati dai processi da esso stesso generati.

Questa è la verità o se si preferisce la sorprendente novità.

Basandosi sul terrore e sul ricatto, il neoliberismo sta disegnando la nuova geo - economia del Pianeta, mediante nuovi strumenti e trattati mirati a garantirsi l’egemonia politica e militare e il controllo dei flussi commerciali: accordi WTO, trattati TTP e TTPI.

Liberisti illiberali! Sì, perché si stanno dimostrando arroganti, intolleranti su tutti fronti: da quello commerciale a quello elettorale, da quello politico a quello culturale.

Il loro obiettivo è il governo del mondo, il “pensiero unico”, l’omologazione.

Tutti uguali, tutti sudditi!

 Per realizzarlo stanno rimodellando la scuola secondo i loro interessi, hanno assoggettato, monopolizzato l’informazione, la formazione scientifica e tecnica, la comunicazione mediatica, le reti dei social forum, ecc.

Si mira alla liquidazione di ogni pensiero critico, alla sua libera espressione.

      Si vuole un mondo unipolare? Una pretesa pericolosa, inaccettabile che potrebbe portare alla fine di tutto.

 Inclusione o esclusione? Questo è il problema.

 Un’altro punto dello scontro e’ quello che passa fra le politiche d’esclusione e quelle d’inclusione sociale. Le prime caratterizzano le condotte dei governi occidentetali, portatori del modello neoliberista, iniquo e classista, che non genera sviluppo, ma consumi superflui e lussuosi, speculazioni, concentra­zione apicale della ricchezza e soprattutto nuove povertà, indigenza.

 Le seconde sono presenti in alcuni Paesi dell’America del Sud, sottoposti per primi alla cura neoliberi­sta, dove i governi progressisti stanno realizzando una po­litica di più equa ripartizione della ricchezza nazionale, per aiutare decine di milioni di esseri umani a uscire dalla fascia della povertà e dell’indigenza.

Anche in Cina e in India, lentamente, s’include, ma quelli sono casi a se stanti.

 Insomma, mentre in America del sud s’include, in Occi­dente si esclude, si tagliano le spese sociali a favore di quelle mili­tari, si consentono le più spudorate speculazioni sulle monete, sul debito pubblico, si tollerano fenomeni abnormi di eva­sione fiscale, ecc.

 Per ricominciare…a lottare

 Ovviamente, l’analisi dovrebbe abbracciare, illuminare tanti altri aspetti della realtà globale. Ma non è questa la sede per farlo. Ma già dal dibattito emerge la necessità di rilanciare la sacrosanta lotta di classe ovviamente tenendo conto delle mutazioni intervenute nella produzione e nei rapporti social interni alle società.

La sinistra, le forze progressiste devono aspirare, proporsi, a livello mondiale, come polo alternativo al neoliberismo.

Per fare ciò è necessario tirare una netta linea divisoria fra gli interessi delle grandi corporazioni economiche e finanziarie e quelli dell’immensa platea delle vittime delle loro politiche.

Uscendo dall’equivoco, alimentato ad arte, se­condo cui la lotta fra le classi è finita con il “crollo del muro di Berlino”, è stata superata dalla storia, dal mercato.

La lotta di classe non è mai cessata. Semmai, c’é da dire che si sta combattendo su un piano asimmetrico. Il realtà, si assiste alla lotta di una sola classe, quella padronale, contro la classe disarmata dei lavoratori e dei piccoli e medi produttori .

    Lungo questo spartiacque ciascuno dovrebbe collocarsi, secondo l’appartenenza, secondo i propri interessi.

Per invogliare i lavoratori a schierarsi, la sinistra avrebbe bisogno- a mio parere- di un programma minimo che punti alla salvaguardia dei diritti acquisiti e ponga sul tappeto alcuni obiettivi di più drammatica attualità, quali:

 1)     La riduzione del ruolo del mercato e la riaffermazione del primato dello Stato democratico, laico e di diritto, unica garanzia per prevenire nuove forme di dominio assolutistico.

Insomma, più Stato e meno mercato, favorendo l’associazionismo cooperativo (specie fra i giovani), l’autogestione degli impianti in crisi o maltenuti, ecc.

 2)     La modifica radicale dei vigenti accordi WTO sul commercio internazionale di beni e servizi, di capitali che hanno consegnato il mondo a ciurme di strozzini e di avidi mercanti;

 3)     Il contrasto dei due nuovi strumenti che il neoliberismo si è dato per controllore i flussi commerciali fra Nord America e Paesi del’area del Pacifico (TTP) (già varato) e sull’altro versate con i Paesi dell’Unione europea (TTPI) (in itinere);

 4)   Porre la questione dell'uso sociale delle scoperte scientifiche e tec­nologiche, frutto della conoscenza umana e della ricerca accademica, che dovrebbero essere considerate patrimonio comune dell'umanità e non proprietà di gruppi ristretti di speculatori.

I benefici prodotti dalle nuove tecnologie non possono essere esclusivo appannaggio di chi le acquista, ma anche delle maestranze, dei lavoratori che le usano.

Pertanto, tali benefici non vanno piu’ distribuiti sotto forma di dividenti a pochi azionisti, ma, equamente, ai lavoratori sotto forma di aumenti salariali e di riduzione del tempo di lavoro anche per creare nuova occupazione.

 Il coordinamento internazionale delle forze progressiste di sinistra

 Il progetto neoliberista si avvale di una catena di comando molto apicale, a dimensione globale, che consente decisioni rapide, efficaci.

 A tale micidiale meccanismo, la sinistra non oppone nulla, poiché non dispone di organismi capaci di realizzare un ordinamento sovranazionale di consultazione, di scambio e di orientamento nelle decisioni.

Senza questa capacità non si può competere.

Si rischia di vanificare gli sforzi di ciascuna forza nazionale, regionale. Serve a poco farsi ammazzare (come accade) in una giungla brasiliana o dell’Honduras se poi questo sacrificio non determina una controreazione coordinata a livello generale, globale.

 Concludo, con un flash sulla questione dell’informazione.

 Parto da una costatazione: l’Europa, che storicamente ha svolto in America latina un ruolo primario. nel bene e nel male, non ha, forse non desidera, un’informazione più ampia e corretta su questa realtà.

Quel poco che arriva attraverso i media della grande borghesia è fango, informazione a senso univoco.

Questo riferimento per evidenziare l’altro grande problema della sinistra che non riesce a fare arrivare il suo messaggio alle opinioni pubbliche, alle masse giovanili, narcotizzate dall’alcool, dalle droghe, dai giochi informatici e dalla disinformazione.

Forse, è il caso di dire: “Compagni, meno sezioni e più televisioni, più internet, più emissioni satellitari, ecc. ”

La sfida dell’informazione è di una importanza capitale. Su questo fronte si gioca la partita del consenso democratico, del rapporto con le nuove generazioni, per costruire l’alternativa al neo liberismo. Grazie per la vostra attenzione.   (2/FINE)
(Agostino Spataro, 8 nov. 2016))