“UNA SOLA CASA”: MIGRANTI E MIGRAZIONI AL TEMPO DEL COVID-19. UNA IMPORTANTE PUBBLICAZIONE DELLO CSER  COVID-19 E MIGRAZIONI: UNO SGUARDO D’INSIEME

L’introduzione al volume di P. Lorenzo Prencipe (Presidente CSER) Al 22 dicembre 2020 il coronavirus,

che nell’ultimo trimestre del 2019 fa la sua comparsa a Wuhan in Cina e dà il via a quella che nel giro di pochi mesi è diventata una pandemia globale da Covid-19, ha prodotto nel mondo 77.534.614 casi di contagio e 1.706.032 morti (Coronavirus Resource Center della Johns Hopkins University of Medicine (1) ) causando, per la prima volta nella storia dell’umanità, il confinamento e l’isolamento di metà della popolazione mondiale, oltre 3 miliardi di persone. Ad ogni modo, se la peste nera del XIV secolo, in un solo anno, dal 1348 al 1349, ha causato la morte di circa 22 milioni di persone in Europa portando la popolazione europea del tempo da 74 a 52 milioni complessivi, se l’influenza spagnola, fra il 1918 e il 1920, arrivò a infettare circa 500 milioni di persone nel mondo, provocando la morte 50 milioni di persone su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi di persone, non è azzardato affermare che l’epidemia da Covid-19 è meno distruttrice in vite umane e in relazioni sociali delle precedenti pandemie che hanno attraversato la storia delle nostre società, anche se gli sguardi terrorizzati dei contagiati più gravi e la continua crescita numerica dei morti giornalieri riportano in superficie la memoria personale e collettiva di ansie e paure mai sopite. La pandemia da Covid-19 ha comunque provocato una grave situazione sanitaria mondiale che si è rapidamente trasformata in pesante crisi economica e sociale. Senza voler sopravvalutare analisi, dibattiti e polemiche che caratterizzano le coperture mediatico-politiche di ogni grande crisi nelle nostre società occidentali e senza sottovalutare il prezzo in vite umane e in disagio psicologico, sociale ed economico che tutti gli strati sociali delle popolazioni mondiali (soprattutto le più povere e marginalizzate) stanno pagando, vogliamo qui sottolineare alcune conseguenze che la pandemia da Covid-19 sta producendo sulle migrazioni e su migranti e rifugiati, aggravandone le condizioni di vita.

MIGRANTI: VITTIME, RESISTENTI, PARTE DELLA SOLUZIONE

Rispetto alla quota globale di migranti internazionali, vale a dire il 3,5% della popolazione mondiale totale, essi sono sovra-rappresentati nei paesi maggiormente colpiti dal virus pandemico, situandosi tra il 5 e il 10% della popolazione globale dei 20 paesi con il maggior numero di casi di Covid-19 (2). Come spesso succede quando le crisi sono di difficile soluzione, la politica e i media (soprattutto sui “social”) si scatenano in pericolose cacce al capro espiatorio. Anche nel caso della pandemia da Covid-19 i migranti sono sovente additati come odierni “untori”, portatori di contagi da osteggiare, isolare e allontanare. Si dimentica (colpevolmente!) di sottolineare che questi migranti – soprattutto quelli con lavori meno retribuiti – sono i più colpiti dalla diffusione del virus e i più vulnerabili alle sue conseguenze, sia dal punto di vista sanitario, perché fanno lavori più rischiosi e vivono in situazioni abitative più insalubri, sia dal punto di vista economico perché lavorano nei settori più coinvolti dalla crisi, come quello alberghiero, della ristorazione e del turismo, risentendo in maniera più immediata e più acuta della perdita di lavoro e ingrossando sempre più la schiera dei disoccupati. A questo proposito, basti ricordare che negli Stati Uniti (ma anche in molti paesi europei), tra agosto 2019 e agosto 2020, il tasso di disoccupazione delle persone nate all’estero è passato dal 3,1% al 10,2%, mentre quello degli autoctoni, nello stesso periodo, è passato da 3,9% a 8,1% (Migration Data Portal; UN-DESA (3) ). Altro che “untori”, i migranti sono piuttosto doppiamente vittime che rischiano invece di pagare il prezzo più alto della pandemia sia per la loro fragilità lavorativa sia per la loro elevata esposizione al virus. Allo stesso tempo, quei migranti, vituperati ed evitati, sono anche le persone che ricoprono un ruolo rilevante nella risposta alla pandemia, operando in settori del mercato del lavoro, utili al buon funzionamento delle società nazionali in tempi di chiusure e confinamenti. In effetti, oltre il 30% degli immigrati in età lavorativa è classificabile come “lavoratore-chiave” da cui spesso dipendono quei servizi essenziali (sanità, assistenza, pulizie…) necessari a difendere gli “autoctoni” dalla pandemia e per assicurare le basi della ripresa economica post-pandemia (4) . I lavoratori immigrati sono fortemente presenti nei settori della salute, dove rappresentano globalmente il 24% dei medici e il 16% degli infermieri (5) , e del commercio alimentare, nei servizi domestici e di cura, nei trasporti e nell’agricoltura stagionale, garantendo mansioni, evitate dagli autoctoni, come la raccolta della frutta. I migranti costituiscono, allora, una quota significativa delle persone impiegate nei settori più colpiti dalla crisi (6) . Negli Stati Uniti, il Center for Migration Studies degli Scalabriniani a New York (7) ha rilevato che gli immigrati stranieri forniscono, negli Stati americani più colpiti dalla pandemia, 19,8 milioni di lavoratori all’essenziale settore sanitario: sono il 16% dei lavoratori dei servizi sanitari a livello federale, ma toccano il 33% nello Stato di New York e il 32% in California. Nel Regno Unito, circa un quarto degli infermieri è formato da stranieri, che in certe aree superano il 50% e secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del Lavoro) sono circa 100 milioni gli immigrati occupati nel mondo in attività di cura, soprattutto agli anziani (8). In Italia, se gli immigrati sono il 10,6% degli occupati regolarmente (circa 2,45 milioni di persone), nei settori essenziali per il funzionamento della società e nei lavori manuali la loro presenza è ancora più rilevante: in agricoltura e nei servizi alberghieri sono circa il 18% mentre nei “servizi collettivi e personali” (sanità e cura alla persona) sfiorano il 37%. E secondo l’INPS a fine 2018, le collaboratrici e assistenti familiari erano circa 860 mila persone regolarmente registrate (oltre 2 milioni se si considerano quelle che lavorano “in nero”), di cui il 70% straniere provenienti da tutto il mondo, soprattutto Ucraina (21,9%), Filippine (16,7%), Moldova (10,1%), Perù (7,0%) e Sri Lanka (6,8%). Nella maggior parte dei paesi OCDE fortemente colpiti dalla crisi, le donne nate all’estero rappresentano una parte considerevole dei lavoratori nei settori delle vendite e dei servizi, principali vittime delle chiusure e dei confinamenti dovuti al Covid-19 (9) . Per esempio, il lavoro di cura spetta in modo rilevante alle donne, compresa l’assistenza alle persone colpite da Covid-19 e ai bambini in conseguenza della chiusura di asili nido e scuole. E come operatrici sanitarie, le donne migranti possono subire un onere aggiuntivo per il loro lavoro dovendo prendersi cura dei membri della famiglia a casa e allo stesso tempo essere potenzialmente stigmatizzate e discriminate se entrano in contatto con pazienti infetti da Covid-19. In tal senso, le donne migranti subiscono una doppia discriminazione sia come migranti che come donne nel paese ospitante.

MIGRANTI E RIMESSE AL TEMPO DEL COVID-19

Il 37% delle rimesse mondiali del 2019 (circa 714 miliardi di dollari USA) è stato ricevuto nei 20 paesi con il maggior numero di casi confermati di Covid-19. 7 di questi 20 paesi (Stati Uniti, Arabia Saudita, Germania, Federazione Russa, Francia e Regno Unito, Italia e India) sono stati tra i paesi da cui sono partite le quantità più elevate di rimesse (circa il 28% di tutte le rimesse). Le rimesse inviate dagli Stati Uniti, dai paesi dell’Eurozona, dal Regno Unito e dal Canada rappresentavano circa il 46% delle rimesse ricevute nei paesi a basso e medio reddito. I paesi del Golfo produttori di petrolio, destinazione preferita dei migranti dall’Asia meridionale e dall’Africa orientale, sono quelli che più di altri, a causa della pandemia, hanno rimandato indietro nei loro paesi d’origine i lavoratori migranti. E quelli che invece sono rimasti là non possono più lavorare a causa dei confinamenti e quindi non possono più inviare rimesse alle loro famiglie nei paesi d’origine: si prevede perciò che i flussi di rimesse verso l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale dai Paesi del Golfo diminuiranno rispettivamente del 23% e del 22% nel 2020 (10) ). Ora, poiché una persona su 9 nel mondo (circa 800 milioni di persone) dipende dalle rimesse inviate dai lavoratori migranti nei paesi d’origine, la pandemia da Covid-19 avrà un impatto considerevole sulle famiglie e sulle comunità dei migranti in termini di alimentazione, salute, istruzione e reddito. Con la crisi da Covid-19, la conseguente perdita di posti di lavoro e la difficoltà di inviare le rimesse durante le chiusure si avrà una rilevante diminuzione delle rimesse verso i paesi a basso e medio reddito nel 2020, portando la Banca mondiale a stimare in soli 574 miliardi di dollari le rimesse che saranno inviate i questi paesi entro fine 2020 (11) . Inoltre, la stessa Banca mondiale prevede un ulteriore calo del 14% delle rimesse inviate entro il 2021 facendo così scivolare altre 33 milioni di persone verso la fame. E poiché, secondo OIL e l’UNICEF, le rimesse internazionali dei migranti alle loro famiglie riducono il lavoro minorile e mantengono i bambini a scuola, con la prevista perdita di oltre 100 miliardi di dollari in rimesse, più bambini corrono il rischio di essere costretti a lavorare (12) .

CHIUSURE E MIGRAZIONI DI RITORNO

La crisi determinata dal Covid-19 ha ridotto notevolmente (di circa il 50% nel primo semestre 2020) i flussi migratori verso i paesi a sviluppo avanzato, tramite la chiusura delle frontiere, la sospensione dei servizi consolari, le restrizioni sui viaggi e sulle ammissioni al soggiorno oltre ad un utilizzo più ampio del telelavoro per gli operai qualificati e alla didattica a distanza per gli studenti. In Europa con 41,3 milioni di persone nate all’estero, pari all’8% della popolazione globale, concentrate per il 75% in 5 paesi compresa l’Italia, la pandemia ha evidenziato le contraddizioni tra approccio economicista delle migrazioni e difesa dei diritti umani. La chiusura, spesso unilaterale da parte degli Stati, dello spazio Schengen, il blocco dei voli e le restrizioni sui movimenti hanno avuto un impatto profondo sia sulle economie nazionali che sugli stessi migranti coinvolti (13) . A livello mondiale, la chiusura dei campus universitari, la perdita di posti di lavoro studenteschi e le restrizioni alla mobilità da parte dei paesi di origine e di destinazione colpiti dal Covid-19 ha toccato, secondo l’UNESCO, in modo particolare gli oltre 5,3 milioni di studenti internazionali nell’istruzione terziaria (14) provenienti soprattutto da Cina, India, Germania, Repubblica di Corea e Vietnam. E molti di loro o hanno fatto ritorno in patria o non sono neanche partiti. In tale contesto di restrizioni, e con i migranti internazionali che perdono il lavoro e affrontano i rischi maggiori di essere infettati a causa delle loro disagiate condizioni di vita, molti lavoratori fanno quindi ritorno nei loro paesi di origine. Per esempio, in India – paese di origine del maggior numero di migranti – dal 3 settembre 2020 sono rimpatriati oltre 1,3 milioni di lavoratori migranti in seguito alle chiusure determinate dalla pandemia da Covid-19. Più di 420.000 afghani privi di documenti sono tornati dall’Iran e dal Pakistan tra marzo e agosto 2020 (15) ). Dei 4,3 milioni di migranti e rifugiati venezuelani nei paesi d’America Latina e Caraibi, un numero crescente sta tentando di tornare in patria dal Perù e da altri paesi della regione. Anche a livello di migrazioni interne, le chiusure e i confinamenti hanno lasciato i migranti interni disoccupati e senza casa e costretto migliaia di loro a tornare nei loro villaggi d’origine abbandonando le grandi città. Tali esodi di lavoratori migranti – internazionali ed interni – producono sui paesi e sui luoghi di origine un aumento delle vulnerabilità sanitarie e una forte pressione socioeconomica. Allo stesso tempo, però, la migrazione di ritorno colpisce anche gli ex paesi di destinazione che dipendono dai lavoratori migranti in diversi settori essenziali. I migranti costituiscono circa il 38, il 15 e il 14% della popolazione in Arabia Saudita, Stati Uniti e Regno Unito (tutti tra i primi 20 paesi con il più alto numero di casi Covid-19), dove sono anche sovra-rappresentati in settori essenziali come sanità e servizi che risentono fortemente del ritorno dei migranti nei loro paesi di origine. Anche per molti giovani emigrati italiani all’estero la pandemia da Covid-19 ha generato reazioni diverse come le fughe per tornare in Italia o nella propria casa all’estero, le quarantene e i confinamenti in “stanze d’affitto” senza sapere se seguire le norme anti-contagio italiane o quelle del paese di residenza, le paure per i propri cari in Italia, i timori per la perdita del lavoro. I migranti italiani più integrati economicamente hanno affrontato relativamente bene chiusure e confinamenti sia continuando a lavorare in presenza (15%) o in modalità smartworking (52%). I più colpiti, invece, sono stati i lavoratori del settore della ristorazione con perdita del lavoro o rimasti a casa senza stipendio e senza aiuti statali (16) .

PROFUGHI E RIFUGIATI ALLA PROVA DEL VIRUS

Rifugiati e sfollati interni, specie quelli che vivono in campi e ambienti sovraffollati, sono tra i più vulnerabili al contagio da Covid-19. I 20 paesi con il maggior numero di casi Covid-19 ospitano circa 9,2 milioni di rifugiati, vale a dire il 40% dei rifugiati del mondo. Di questi 20 paesi, la Turchia, il Pakistan, la Germania, la Repubblica islamica dell’Iran e il Bangladesh sono i paesi che ospitano più rifugiati (17) . Inoltre, i 50,8 milioni di persone sfollate all’interno del proprio paese a fine 2019 rappresentano un altro gruppo di persone particolarmente vulnerabile al Covid-19 (18) . Anche i “migranti climatici” – quasi 25 milioni nel mondo – sono più facilmente soggetti a contrarre la malattia a causa degli spazi sovraffollati e delle condizioni igieniche in cui vivono, senza contare che alcuni fenomeni che generano tali migrazioni (deforestazione, urbanizzazione selvaggia, allevamenti intensivi) sono gli stessi che hanno facilitato la diffusione di virus simili a quello del Covid-19 (Rapporto Organizzazione internazionale per le migrazioni-OIM e Agenzia Onu World Food Programme-WFP (19) ). Per molti di questi rifugiati e profughi il Mediterraneo centrale rimane, spesso l’unica via di fuga, pur continuando ad essere l’attraversamento marittimo più pericoloso per i migranti. Secondo l’OIM (20) , nell’aprile 2020, 1.132 persone (più del doppio della cifra nello stesso mese del 2019 – 498) hanno tentato di attraversare il Nord Africa verso l’Italia e Malta. Questo aumento degli attraversamenti è continuato nei mesi successivi e nell’agosto 2020 almeno 4.056 persone hanno tentato questa traversata. 283 persone sono morte su questa rotta tra marzo e agosto 2020, ma le misure politiche in risposta al Covid-19, come la chiusura dei porti e un minor numero di navi autorizzate alla ricerca e soccorso sulla rotta del Mediterraneo centrale, hanno certamente influenzato la raccolta di dati e probabilmente di molti naufragi non si sono avute notizie.

LA POLITICA (E I SUOI EFFETTI PERVERSI) ALLA LUCE DELLA PANDEMIA

In molti paesi si è fatto prepotentemente strada nel discorso politico sulla comprensione/gestione della pandemia da Covid-19 un pericoloso e ambiguo processo di “politicizzazione e drammatizzazione”. In effetti, i decisori politici presentando l’epidemia come un fatto puramente “medico e sanitario” che esige “asettici” provvedimenti “tecnico-scientifici”, spesso tendono, implicita ed esplicitamente, a legittimare politiche nazionaliste e securitarie, rappresentate dall’uso generalizzato del “vocabolario bellico” anti Covid-19, come guerra, combattimento, armata, nemico invisibile interno ed esterno…; politiche queste che tendono ad annullare lo “spazio mondo” a beneficio del solo “spazio nazionale” (21) . La solidarietà interna e l’obbligo degli Stati di proteggere i propri cittadini ha rafforzato la contrapposizione verso le persone vulnerabili provenienti dall’estero. E rinforzando la securitizzazione dei confini nazionali, si vuole proteggere il gruppo degli inclusi (i cittadini nazionali) dagli outsiders, migranti e rifugiati, percepiti come minaccia per il benessere nazionale. In fondo, all’ora del coronavirus essere rifugiato in cerca di protezione e di accoglienza non ha più molto valore, né impatto umano-emotivo, perché ogni Paese pensa ai “suoi” malati, ai “suoi” morti, alle “sue” misure di contenimento. E chiudere unilateralmente le frontiere nazionali ha accentuato ancor più la crisi della concertazione europea veicolando in maniera, più o meno esplicita, la falsa idea che il pericoloso virus venga necessariamente dall’estero e dallo straniero, indisciplinato, lassista e indolente, mentre la comunità nazionale ligia alle regole ne sarebbe incolpevole vittima. L’incongruenza di tale approccio proibisce allora l’entrata di stranieri sul territorio nazionale e anzi ne incita la partenza di quelli ivi presenti, ma allo stesso tempo permette ai propri concittadini provenienti dall’estero (e quindi, in teoria e in pratica, possibili e probabili vittime del virus) di far tranquillamente ritorno in patria oppure manifesta molta tolleranza verso viaggi d’affari e turismo quasi a legittimare l’idea che il pericolo è dovuto esclusivamente alla mobilità dei poveri e non dei benestanti (22) . La strumentalizzazione politico-nazionalista della pandemia ha avuto negli Stati nazionali espressioni diversificate. Negli Stati Uniti troviamo un atteggiamento di minore drammatizzazione del “rischio sanitario” compensato da un esponenziale incitamento all’odio “anti-cinese” legittimante la guerra commerciale e le misure protezioniste. Il presidente brasiliano ha invece sfidato platealmente il “virus straniero”, utilizzato dalle potenze nemiche per indebolire il suo paese, cavalcando un certo “negazionismo scientifico” ed etichettando l’epidemia da coronavirus come “semplice ed innocua influenza”. Le “democrazie autoritarie” d’Europa orientale, come Ungheria, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, hanno preferito la drammatizzazione della propagazione del virus per incitare i propri cittadini a unirsi per combattere il “virus straniero”, prodotto dall’incuria dell’Unione europea. La stessa Cina, considerata come focolaio originario dell’epidemia, non ha esitato a cavalcare il nazionalismo xenofobo antiamericano e anti-australiano per tentare di sminuire le proprie responsabilità nella gestione della crisi sanitaria. In tale clima di nazionalismo esacerbato, si sono scatenate anche forme di vero e proprio razzismo xenofobico che trova nei social media un’ampia cassa di risonanza e che hanno avuto come bersaglio mondiale le popolazioni cinesi o di origine asiatica vittime di boicottaggio delle attività economiche come ristoranti e vendite al dettaglio, oltre ad insulti e aggressioni verbali e fisiche. In maniera simmetrica, lo stesso processo è avvenuto in Cina dove i migranti e gli studenti africani sono diventati i capri espiatori di una crisi sanitaria di cui le autorità cinesi avrebbero dovuto portare la responsabilità maggiore. Infine, la crisi sanitaria da Covid-19 ha svegliato vecchi demoni antisemiti per i quali, come nel medioevo l’ebreo veniva accusato di diffondere malattie nel corpo della società, così all’epoca del coronavirus in Russia, nei Paesi d’Europa orientale, in Germania, in Francia non sono mancati tweet e chat che sulla base di nomi “giudaizzanti” dei proprietari di laboratori farmaceutici li hanno accusati di aver deliberatamente diffuso e alimentato l’epidemia per i loro interessi economici. In tal modo le antiche e mai sopite teorie complottiste mondiali sono tornate in auge in una situazione dove il disprezzo dell’altro viene additato come rimedio sempre efficace dinanzi all’incompetenza e all’incapacità politico-sociale di gestire le crisi.

IN CONCLUSIONE

La pandemia da Covid-19, che ha toccato, dal punto di vista sanitario (23) , economico e lavorativo, tutte le diverse fasce della popolazione mondiale, non ha risparmiato gli immigrati, soprattutto quelli le cui condizioni di vita sono esposte alla precarietà, generata da lavori occasionali o irregolari e hanno, perciò, maggiori probabilità di perdere il lavoro oppure, avendolo perso, hanno meno possibilità di accesso alle diverse forme di protezione sociale. Inoltre, la crescente difficoltà economica vissuta dai migranti in questo periodo di chiusure e confinamenti non permette di garantire l’invio regolare di rimesse alle loro famiglie nei paesi di origine, accentuando così in molti paesi a basso e medio reddito quelle disuguaglianze globali che li rendono sempre più fragili e periferici. Ad ogni modo, con la diminuzione delle rimesse dei migranti e la sempre più difficile situazione lavorativa, lo sbocco migratorio continuerà ad essere una via d’uscita per quei paesi “a basso e medio reddito” che continueranno a scontrarsi con le politiche dei paesi di destinazione più interessate a combattere “i clandestini” che a identificare canali legali di migrazione e integrazione oltre ad assicurare un rifugio sicuro per quanti, individui e famiglie, sono in cerca di protezione internazionale. Allo stesso tempo, la pandemia ha messo in evidenza quei lavoratori migranti definiti “essenziali”. E benché il loro apporto sociale non sempre venga adeguatamente riconosciuto è innegabile il fatto che la vita “ordinaria” della società dipende molto dal lavoro di questi operatori sconosciuti, malpagati e precari. Se questo sarà il caso, potremo alla fine ascrivere agli effetti della pandemia anche il fatto che ci ha permesso di considerare le migrazioni e i migranti come parte integrante della nostra vita sociale, economica e culturale. E che la risposta a chiusure e confinamenti pandemici non è il ripiegarsi su stessi, il difendere i propri confini e interessi, ma l’assumere coscientemente il fatto che, sia a livello locale che a livello globale, “abbiamo bisogno dell’altro” e che “non ci si salva da soli”.

NOTE: 1) – https://coronavirus.jhu.edu/ – 22.12.2020

2) – OCDE, Perspectives des migrations internationales 2020, Genève, OCDE, 2020.

3) – https://migrationdataportal.org/fr/themes/migration-data-relevant-covid-19-pandemic; https://www.un.org/development/desa/en/news/population/covid-19-crisis-exposes-need-to-govern-migration-in-a-more-humane-and-effective-way.

4) – IDOS-Confronti, Dossier Statistico Immigrazione 2020, Roma, Inprinting srl, 2020.

5) – Tra i 20 paesi più colpiti da Covid-19, i dati mostrano che 7 paesi (Stati Uniti, Spagna, Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Canada e Svizzera) dipendono da lavoratori nati all’estero nel settore dei servizi sanitari: il 33% dei medici e il 22% degli infermieri nel Regno Unito; negli USA rispettivamente il 30 e il 16%; in Germania il 20 e il 16%; in Francia il 16 e il 7%; in Spagna il 14 e il 4%; in Italia il 4 e l’11%.

6) – Oltre il 13% di tutti i servizi e addetti alle vendite in 6 dei 20 paesi con il maggior numero di casi Covid-19 erano nati all’estero; più del 9% di tutti i lavoratori impiegati in agricoltura, silvicoltura e pesca in 5 di questi paesi erano nati all’estero.

7) – KERWIN, Donald; NICHOLSON, Mike, ALULEMA, Daniela, WARREN, Robert, US Foreign-Born Essential Workers by Status and State, and the Global Pandemic, New York, Center for Migration Studies, Report 2020: https://cmsny.org/publications/us-essential-workers/

8) – AMBROSINI, Maurizio, L’immigrazione al tempo della pandemia: nuove difficoltà, scoperte impreviste, opportunità insperate, Mondi Migranti, 14(2), 2020, pp. 1-13.

9) – Le donne sono meno della metà, 130 milioni o il 47,9%, dello stock mondiale di migranti internazionali. Nel 2013 c’erano circa 11,5 milioni di lavoratori domestici migranti nel mondo, di cui 8,5 milioni di donne. In tempi di Covid 19, i loro datori di lavoro possono essere infettati e trasmettere la malattia o anche morire causando al lavoratore la perdita del reddito poiché i permessi di lavoro sono spesso legati al datore di lavoro. Con la chiusura delle frontiere e le limitazioni economiche, il ritorno nei paesi di origine spesso non è possibile, intrappolando i lavoratori domestici migranti nei paesi di destinazione senza mezzi di sussistenza.

10) – https://www.worldbank.org/en/topic/migrationremittancesdiasporaissues/brief/migration-remittances-data

11) – AMBROSINI, Maurizio, Immigrati. Per aiutarli a casa loro aiutiamo pure le rimesse, Avvenire, sabato 28 novembre 2020.

12) – PELOSO, Francesco, I paesi più poveri rischiano il collasso senza le rimesse degli emigrati, Internazionale, 19 maggio 2020, https://www.internazionale.it/opinione/francesco-peloso/2020/05/19/rimesse-emigrati-collasso

13) – IDOS-Confronti, Dossier Statistico Immigrazione 2020, cit.

14) – Dei 5,3 milioni di studenti internazionali, 3,3 milioni studiavano in Nord America e in Europa.

15) – https://afghanistan.iom.int/pakistan-returns

16) – TIRABASSI, Maddalena; DEL PRA’, Alvise (a cura di), Il mondo si allontana? Il COVID-19 e le nuove migrazioni italiane, Torino, Accademia University Press, 2020.

17) – https://www.unhcr.org/5ee200e37.pdf

18) – https://www.internal-displacement.org/ Di questi sfollati interni, 45,7 milioni lo erano a causa di conflitti e 5,1 milioni di persone nel contesto di disastri. 18,3 milioni dei 50,8 milioni avevano meno di 15 anni e 3,7 milioni sopra i 60 anni.

19) – https://www.wfp.org/publications/populations-risk-implications-covid-19-hunger-migration-displacement-2020

20) – https://www.iom.int/news/covid-19-control-measures-gap-sar-capacity-increases-concern-about-invisible-shipwrecks?utm_source=Unknown%20List&utm_campaign=bb10a2b60b-EMAIL_CAMPAIGN_2020_05_12_05_28&utm_medium=email&utm_term=0_-bb10a2b60b-%22%20%5Ct%20%22_blank

21) – GEISSER, Vincent, L’hygiéno-nationalisme, remède miracle à la pandémie ? Populismes, racismes et complotismes autour du Covid-19, Migrations Société, 180, 2020, pp. 3-18.

22) – AMBROSINI, M., L’immigrazione al tempo della pande

23) – Per quanto riguarda la vulnerabilità sanitaria dei migranti, in Francia per esempio, nei mesi di marzo e aprile 2020, la mortalità eccedente rispetto ai mesi corrispondenti del 2019 è stata del 48% per le persone nate all’estero contro il 22% per i nati in Francia: per i nati nel Maghreb l’aumento è stato del 54%, e per gli immigrati dall’Africa sub-sahariana ha raggiunto il 114% (PAPON, Sylvain; ROBERT-BOBÉE, Isabelle, Une hausse des décès deux fois plus forte pour les personnes nées à l’étranger que pour celles nées en France en mars-avril 2020, Paris, INSEE, 2020, www.insee.fr/fr/statistiques/4627049).